Commentando l’attacco chimico lanciato sabato su una delle ultime roccaforti della resistenza presso Damasco, Donald Trump ha chiamato in causa la Russia di Vladimir Putin preannunciando «un alto prezzo da pagare», e una risposta americana entro 48 ore: ma il fronte siriano è tornato a incendiarsi quando già gli Stati Uniti erano passati all’attacco su quello del Russiagate e delle sanzioni, decise per colpire le presunte interferenze russe nelle elezioni americane. Così, la crisi è esplosa in contemporanea: il lunedì nero di Putin.
Ed è a causa delle sanzioni che l’economia russa ha iniziato a pagare quell’«alto prezzo» di cui ha parlato Trump, spingendo gli investitori a prendere le distanze. In mezza giornata, i sette oligarchi nel mirino del Tesoro americano avrebbero già perso - secondo i calcoli del quotidiano economico russo Vedomosti - 3,3 miliardi di dollari su un patrimonio totale di 32,5 miliardi. Ma a rischio, soprattutto, sono la stabilità del rublo e la tenuta di un’economia vulnerabile, appena uscita dalla recessione. A quattro anni dalla loro prima comparsa sulla scena per la crisi ucraina, è adesso che le sanzioni contro la Russia - mentre si aspetta la risposta del Cremlino - iniziano davvero a mordere.
Venerdì 6 aprile il Tesoro americano era passato ai fatti con il cosiddetto “Kremlin Report”, la lista di oligarchi e compagnie più vicine a Putin, cruciali per la sopravvivenza del regime nella sfera dell’energia e delle materie prime. Washington li accusa di contribuire e trarre beneficio dalle «attività maligne» del Cremlino: nel mirino sono 7 businessmen, 12 compagnie e 17 alti funzionari. I loro assets negli Stati Uniti sono congelati, ora è vietato fare affari con loro. Ma non è soltanto il mercato americano a chiudersi di fronte all’élite economica di Putin. In base alla legge approvata a larga maggioranza dal Congresso americano l’estate scorsa, il bando può riguardare qualunque compagnia straniera con interessi negli Usa, come i partner europei di Gazprom: cittadini non americani, è scritto nella direttiva del Tesoro Usa, «possono incorrere in sanzioni nel caso dovessero facilitare consapevolmente transazioni significative con o per conto di individui o entità bloccati». L’isolamento è quasi completo.
Al centro del ciclone è soprattutto Oleg Deripaska, sospettato di essere vicino a Paul Manafort, ex responsabile della campagna presidenziale di Trump. Da solo, in poche ore Deripaska ha visto assottigliarsi il proprio patrimonio di 1,3 miliardi. Il “re dell’alluminio” controlla Rusal, primo produttore russo e secondo al mondo: il 14% dei suoi ricavi e il 10% delle vendite hanno origine negli Stati Uniti. Ma l’allargamento delle sanzioni anche a entità non americane potrebbe indurre chiunque a negare finanziamenti o ad acquistare alluminio altrove, timore all’origine del balzo del prezzo sui mercati internazionali. L’impero di Deripaska è globale, ed è sotto assedio. Le sanzioni americane, ha fatto sapere Rusal lunedì mattina lanciando l’allarme, potrebbero costringere la compagnia a una serie di default tecnici su alcuni impegni, e risultare «materialmente avverse al business e alle prospettive del gruppo». Quotato a Hong Kong, il titolo della compagnia di Deripaska è crollato del 50%, mentre la holding En+ perdeva il 27,5% a Londra.
Per il governo russo, che stava riemergendo dalla recessione, questa crisi implicherà un nuovo impegno a sostegno dei gruppi colpiti, a carico delle banche di Stato. Nei prossimi giorni è dato per possibile un incontro tra Putin e gli imprenditori nella bufera, mentre il premier Dmitrij Medvedev ha ordinato al governo di preparare le ritorsioni alle sanzioni Usa. Ma intanto la Borsa di Mosca ha reagito con il calo più forte dalla crisi ucraina del 2014: l’indice Moex, denominato in rubli, ha perso l’8,7%, l’Rts in dollari più dell’11%. In perdita, tra gli altri, anche i titoli di Sberbank o di Norilsk Nickel - compagnie non nell’elenco delle sanzioni - a riprova delle preoccupazioni per l’impatto sull’insieme dell’economia. Il rischio più grosso è la stabilità del rublo, rimessa in discussione con la moneta russa scesa a 60,2 sul dollaro e a 75 sull’euro, perdendo in entrambi i casi più del 3% (qui il cambio con l’euro). Come ha spiegato all’agenzia Bloomberg Kirill Tremasov, analista di Loko-Invest, «era da lungo tempo che non vedevamo una tale, coordinata ritirata di massa dagli assets russi».
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