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DOPO IL RAID IN SIRIA

Missione compiuta? Storia della (presunta) distruzione dell’arsenale chimico di Assad

Missione davvero compiuta? L'annuncio, euforico, del presidente americano Donald Trump - «Mission accomplished», a cui ha fatto eco la dichiarazione da parte del ministro francese degli Esteri Jean-Yves Le Drian - «Obiettivi raggiunti, non sono programmati altri raid»- sollevano più di qualche perplessità in merito all'efficacia dei raid militari scattati nella notte di sabato contro i siti di armi chimiche siriane.

Quella che per la Casa Bianca poteva essere una missione di alcuni giorni, forse anche di più, si è ridotta a un raid di poche ore, così efficace – sostiene il Pentagono – da «aver riportato indietro di anni il programma chimico di Damasco».

Le notizie divergenti sui siti colpiti
Sicuramente nella notte tra venerdì e sabato è stata lanciata un'operazione più estesa rispetto a quella di un anno fa, quando, in seguito ad un attacco chimico nel distretto di Khan Sheikhoun (le vittime furono 70-80), Donald Trump autorizzò il lancio di 59 missili Tomahawk contro la base aerea siriana di Shayrat.
Le notizie riguardo ai raid compiuti sabato notte sono ancora poco precise e discordanti. Secondo fonti militari occidentali sarebbero stati colpiti almeno tre siti, sembra laboratori di produzione di armi chimiche e depositi di armi non convenzionali nelle regioni di Damasco e Homs. La tv di Stato siriana ha invece mostrato le immagini di un edificio a Barze, affermando che era un «centro educativo».

Dal canto suo l'Osservatorio nazionale per i diritti umani ha precisato che, oltre a Barze, sono stati colpiti altri siti vicino a Damasco: il centro di ricerche di Jamraya, più volte preso di mira di recente da raid aerei attributi a Israele; depositi di armi della Guardia repubblicana siriana nell'aeroporto militare di Mezze; e altri depositi nella base di Kiswa, a sud-ovest di Damasco e verso il Golan controllato da Israele. Sono tutte notizie che attendono ancora una conferma.

Un'azione solo dimostrativa
Dopo aver elogiato Francia e Gran Bretagna, Trump ha dichiarato: «Non avremmo potuto ottenere un risultato migliore». Una frase che sa di propaganda.
Il timore, più che fondato, è che non siano stati distrutti tutti i siti in cui sono state stoccate armi chimiche. «Nei giorni che hanno preceduto il raid di sabato - spiega Annalisa Perteghella, ricercatrice dell'Ispi specializzata nel Medio Oriente - la Russia ha avuto tutto il tempo di evacuare i suoi militari e le sue attrezzature. Può anche essere accaduto che siano stati rimossi stock di agenti chimici».

Gioco delle parti
Sembra dunque che la missione fosse già compiuta ancor prima di iniziare. Nel senso che tutti sapevano come doveva cominciare, ma anche come doveva finire: con un'azione dimostrativa contenuta per evitare una potenziale guerra aperta che nessuno degli attori coinvolti (incluso l'Iran) sembra desiderare.
«L'operazione militare congiunta di Stati Uniti Francia e Germania – continua Annalisa Perteghella – è più un messaggio politico che un'operazione realmente efficace. Una volta oltrepassata la linea rossa, Usa, Francia e Gran Bretagna non potevano non reagire. Ma sembra si sia trattato di un grande gioco delle parti. Un gioco che rispondeva alla logica di evitare uno scontro diretto tra gli attori internazionali in Siria. Gli Stati Uniti hanno reagito militarmente, ma in modo piuttosto contenuto, al fine di evitare che la Russia assumesse iniziative troppo forti».

La (presunta) distruzione dell'arsenale chimico siriano
L'operazione militare Usa-Francia-Gb riporta tuttavia alla luce le gravi criticità dei programmi internazionali di smantellamento delle armi chimiche. Nell'agosto del 2013, il presidente americano, Barack Obama, prima annunciò la volontà di lanciare un raid militare contro il regime siriano, responsabile del più brutale attacco chimico della guerra civile (si parlò di oltre mille vittime), poi fece marcia indietro venendo incontro alla proposta del presidente russo Vladimir Putin; mediare lo smaltimento di tutte le armi chimiche in mano a Damasco sotto la supervisione dell'organizzazione internazionale per la proibizione delle armi chimiche (Opcw). Meno di un anno dopo, nel luglio 2014, l'allora Segretario di Stato americano John Kerry, compiaciuto, annunciò: «Abbiamo strappato un accordo che ci ha permesso di distruggere il 100% delle armi chimiche». La sua dichiarazione seguiva un rapporto dell'Opcw secondo cui 1.308 tonnellate di armi o agenti chimici erano state eliminate.

La lista parziale dei siti chimici
Il diavolo, però, si nasconde nei dettagli. E questi dettagli sono piuttosto ingombranti. Le indagini condotte dagli esperti dell'Opcw in Siria dovevano essere limitate alla lista consegnata da Damasco. Quella che solo in teoria doveva indicare i depositi di armi, e la loro precisa quantità. Il team dell'Opcw ispezionò 21 siti, altri due furono ritenuti troppo pericolosi per inviarvi gli esperti (ma ritenuti privi di armi). I servizi segreti delle diverse potenze occidentali avevano tuttavia parlato di quasi 50 siti sospetti. Insomma il numero e la reale localizzazione dei centri di produzione e dei depositi di agenti chimici è sempre rimasto un mistero. Nel luglio 2016, l'Opcw confermò la distruzione dell'arsenale dichiarato, ma prese tuttavia atto di diversi attacchi compiuti in Siria con agenti chimici. Non è poi secondario il fatto che i suoi esperti abbiano verificato l'uso di armi chimiche da parte dell'esercito siriano fino all'aprile del 2017. Cosa sia successo dopo è facilmente intuibile. Anche perché i diversi attacchi chimici occorsi negli ultimi 12 mesi hanno confermato che il regime siriano aveva ancora a disposizione queste armi proibite.

E probabilmente ne ha ancora. Anche dopo quest'operazione militare in cui tutti, Russia compresa, sembrano aver salvato la faccia.

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