Per distrarre l'opinione pubblica dai problemi reali, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan le ha provate tutte. Prima ha ripetutamente agitato lo spettro delle minacce oltre confine. Poi ha dato il via ad operazioni militari in Siria. Infine ha gridato al complotto internazionale contro la lira turca, chiedendo (è notizia di ieri) ai cittadini di «convertire dollari ed euro in lire» per salvare la moneta dal tracollo. Eppure sapeva bene, sin dall'inizio, che il nemico più insidioso si trovava - e si trova - in casa.
Perché il miracolo economico, l'argomento forte con cui è riuscito a far breccia nel cuore di molti elettori, alla fine non era affatto un miracolo. La crescita per quanto sorprendente ( +7,4% nel 2017), non poggiava su solide fondamenta. Prima o poi i nodi sarebbero venuti al pettine.
Proprio per questo il presidente turco aveva deciso di anticipare – addirittura di un anno e mezzo – le elezioni fissandole al prossimo 24 di giugno, accorpando per giunta in un solo giorno le legislative alle presidenziali. Una mossa che probabilmente rispondeva alla speranza di essere riconfermato, e consolidare il potere grazie a un referendum che trasforma la Turchia in un repubblica presidenziale, prima che il peggio si avverasse. Il peggio tuttavia si sta già avverando.
La lira turca, infatti, continua a precipitare (-19% nell'ultimo mese, -34% in un anno). E quando mercoledì ha toccato i minimi storici sul dollaro, perdendo il 5% in una giornata, la Banca Centrale, fino a quel momento attenta a non urtare la sensibilità del presidente, non ha potuto far altro che alzare i tassi di 300 punti base al 16,5 per cento. Per Erdogan, paladino di una politica monetaria espansionistica, che aveva definito pochi giorni prima un rialzo dei tassi come «la madre e il padre di tutti i mali», è stato un duro colpo.
Ma potrebbe non essere sufficiente a frenare la svalutazione . Il rischio di un surriscaldamento dell'economia è ancora reale. Nel mentre l'opposizione sta serrando i ranghi. A un mese dalle elezioni Erdogan è sempre più in difficoltà. Difficilmente riuscirà a vincere al primo turno. Dovrà affrontare il ballottaggio. E per quanto resti lui il candidato da battere, in questo caso non sono più esclusi colpi di scena.
Salito al potere nel come primo ministro nel 2003, e poi divenuto presidente nel 2014, Erdogan aveva avuto il merito di trasformare la Turchia in una potenza economica mondiale. In 10 anni il Pil pro capite era quadruplicato a 10mila dollari, facendo uscire milioni di turchi dalla povertà. Forti di prestiti statali agevolati e incentivi, le imprese prosperavano. Anche perché le grandi opere infrastrutturali pubbliche offrivano un mare di opportunità.
Ma quale è stato il prezzo di questa politica economica populista?
Pochi numeri sono sufficienti a tratteggiare uno scenario preoccupante. Il deficit delle partite correnti è salito a 55,4 miliardi di dollari nel marzo del 2018, vicino al 6% del Pil. Dodici mesi prima era a 47, 4 miliardi. L'inflazione, la minaccia più grande, ha già raggiunto l'11% e dovrebbe restare a due cifre per tutto il 2018. A farne le spese potrebbero esser proprio i settori industriali che avevano guidato la crescita, ovvero il comparto edile, il retail e l'Ict. Per un Paese che importa buona parte dei beni che consuma non è affatto una buona notizia. Ancora meno considerando il rincaro dei prezzi del petrolio, materia prima scambiata in dollari che la Turchia importa in grandi volumi per soddisfare le richieste della sua economia energivora.
Quanto alle riserve valutarie, ammontano a soli 87,9 miliardi di dollari. Se si considera che il fabbisogno finanziario estero per il 2018 è di 222 miliardi di dollari, si comprende quanto siano inadeguate per fronteggiare le prossime sfide che attendono la Turchia.
La prima vittima dell'instabilità valutaria potrebbero essere proprio le dinamiche imprese turche, il motore dell'economia. Se la svalutazione dovesse continuare su questi ritmi, molte delle compagnieà turche, che hanno contratto debiti in valuta estera, rischiano di veder drasticamente ridotta la loro capacità di rimborsarli.
Sembra che una tempesta perfetta si stia abbattendo sulla Turchia. Perché un altro effetto della svalutazione della lira è la corsa alla valuta pregiata straniera, già insufficiente da diversi mesi. Spaventati dal deprezzamento della lira, i risparmiatori privati stanno cercando di convertire i loro risparmi in modo da difendersi dall'inflazione. Anche le imprese private, il cui deficit netto estero ammonta a 223 miliardi di dollari, stanno facendo altrettanto per minimizzare i rischi futuri.
Sullo sfondo la crescente disoccupazione. Ogni anno si affacciano sul mercato del lavoro almeno 500mila persone. Per assorbirle sarebbe necessaria una crescita costante del Pil pari al 5% per diversi anni.
Questa volta Erdogan sembra avere le armi spuntate. Avrebbe un urgente bisogno di maggior liquidità in valuta pregiala e di un consistente aumento degli investimenti stranieri. Proprio due voci che si stanno riducendo vistosamente . Il miracolo economico turco potrebbe incepparsi presto.
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