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Libia, l’attivismo diplomatico di Macron che rischia di spiazzare l’Italia

La sfida diplomatica che si sta giocando sulla Libia somiglia a una partita a scacchi. Un vincitore ancora non c’è. Ma uno dei due giocatori, l’Italia, sta perdendo pezzi importanti. Se c’è un Paese che negli ultimi mesi si è distinto per il suo dinamismo questa è la Francia.

Il vertice organizzato martedì a Parigi da Emmanuel Macron è un’iniziativa sostanzialmente unilaterale che scalza l’Italia dal suo tradizionale ruolo di interlocutore privilegiato e sancisce il ruolo della Francia come il più influente mediatore per la Libia. L’intesa raggiunta tra i più importanti leader libici, peraltro senza una firma ufficiale e senza il consenso di 13 importanti milizie della Tripolitania, è una dichiarazione di intenti che attende la prova dei fatti.

È dunque prematuro dare per acquisita la riunificazione dell’ex regno di Muammar Gheddafi. Aver fissato per il 20 dicembre le prossime elezioni (anche quelle presidenziali) tradisce più l’ostinazione francese di trovare una rapida soluzione a una crisi che dura da sette anni piuttosto che tracciare una transizione onnicomprensiva e duratura .

Libia al voto 10 dicembre, accordo senza firma

Tutto è ancora sospeso. Quella di martedì resta però una vittoria diplomatica francese. E per quanto Macron abbia indorato la pillola, ringraziando Roma per il suo prezioso contributo, la sostanza non cambia. Parigi vuole estendere la sua influenza sul Nord Africa, in particolare sulla Libia. E possibilmente ottenere delle contropartite. Facile immaginare quali siano: i giacimenti petroliferi del golfo della Sirte (greggio di qualità e geograficamente vicino), ancora da esplorare, rappresentano una grande opportunità per la major energetiche europee. La major francese Total appare determinata a consolidare la sua presenza in Libia. In marzo ha acquistato dall’americana Marathon Oil il 16% del giacimento di Waha (in Cirenaica) per 450 milioni di dollari. Un accordo tuttavia non ritenuto valido da governo di Tripoli e della Noc, la compagnia petrolifera nazionale, secondo cui occorre l’approvazione delle autorità libiche.

Già lo scorso 25 luglio, solo due mesi dopo essersi insediato all’Eliseo, Macron aveva colto di sorpresa il mondo invitando i due leader rivali della Libia nel castello di Celle-Saint-Cloud, alle porte di Parigi. Per la prima volta Fayez al-Sarraj, premier di quel Governo di accordo nazionale (Gnc) sostenuto dalla Comunità Internazionale, e il generale Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica, trovavano un accordo. L’esclusione dell’Italia, fino a quel momento protagonista dei negoziati insieme all’Onu, aveva provocato il disappunto di Roma. Poco conta che l’incontro tra i due rivali non abbia sortito gli effetti desiderati. Invitando Haftar a Parigi Macron aveva di fatto sdoganato un generale ribelle, impegnato in una guerra personale contro i movimenti estremisti islamici, che non riconosceva quel Governo di accordo nazionale sostenuto dalla Comunità internazionale alla cui creazione l’Italia aveva lavorato alacremente.

Che la Libia interessi alla Francia non è un segreto. Già nel marzo del 2011 il presidente francese Nicolas Sarkozy fu il promotore della risoluzione 1973. Una campagna aerea internazionale che doveva difendere la popolazione della Cirenaica dalle rappresaglie di Gheddafi, ma che divenne presto un intervento internazionale per rovesciare il regime. Morto Gheddafi (ottobre 2011) sembrava che la Libia riuscisse a mettersi in piedi. Dopo un anno e mezzo incoraggiante, il cammino verso la transizione democratica si è però interrotto. Nel 2014, quando una coalizione di milizie islamiche aveva conquistato Tripoli, insediando un Governo ombra, il Paese si era spaccato in due: la Cirenaica, dove si erano rifugiati gli onorevoli libici eletti tre mesi prima in un voto non privo di criticità, e la Tripolitania. Nel mentre Haftar diveniva sempre più forte. La sua potente milizia era riuscita a controllare i terminal petroliferi della Cirenaica. Scontrandosi in alcune occasioni con le milizie che sostengono il Gnc, insediatosi a Tripoli nel marzo del 2016.

Pur cercando assiduamente di portare i due rivali al tavolo dei negoziati, l’Italia ha sempre sostenuto le autorità di Tripoli. Non è peraltro irrilevante il fatto che la maggior parte dei giacimenti dove opera l’Eni si trovi proprio in Tripolitania. Parigi non stava a guardare. Sotto la presidenza di François Hollande, forze speciali francesi si erano già insediate in Cirenaica. Con un abile equilibrismo diplomatico Parigi sosteneva ufficialmente il Gnc, ma al contempo, stava al fianco del suo nemico. Di nascosto. Fino al 20 luglio 2016, quando la morte di tre soldati francesi precipitati con un elicottero nei pressi di Bengasi, dove Haftar stava combattendo contro milizie islamiste, costrinse il ministero francese della Difesa a uscire allo scoperto: la Francia aveva inviato forze speciali in Libia. A fianco di chi, è facile immaginarlo.

Macron sembra aver rafforzato i rapporti con Haftar, e con il suo alleato, l’Egitto. Cogliendo una straordinaria occasione durante la visita a Parigi del presidente americano Donald Trump, il 13 luglio scorso. «Il presidente Trump ed io condividiamo le stesse intenzioni riguardo alla Libia», aveva ribadito.

E l’Italia? Roma, che ha sempre lavorato per un dialogo realmente inclusivo (in Libia ci sono 140 tribù ed oltre 100 milizie), ha più volte espresso le sue perplessità sulla strategia francese. In merito al vertice di martedì l’ambasciatore italiano a Tripoli, Giuseppe Perrone, è stato chiaro: «Divisioni e iniziative caotiche potrebbero contribuire al ritorno delle barche della morte». C’è il rischio dunque che vengano compromessi i risultati positivi seguiti al Memorandum d’intesa che l’Italia ha firmato il 2 febbraio del 2017 con il Governo di Tripoli. Un accordo che prevede finanziamenti e sostegno al Gnc per fermare le partenze di migranti dalla Libia verso le coste italiane (nei primi mesi di quest’anno gli arrivi in Italia sono diminuiti del 75%). La posta in gioco è molto alta. L’Italia può e deve ritrovare in Libia il suo ruolo di primo piano.

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