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l’occidente diviso

I «veleni» del G7: così l’America di Trump ha trasformato gli alleati in nemici

Quebec City (Canada) - Donald Trump, con una brusca e spesso brutale escalation della faida con gli alleati in pochi giorni, ha aperto un vero e proprio vaso di Pandora: ha liberato tutti i veleni della sua America First che rischiano di intossicare un sistema internazionale, auspicato dai paesi europei e non solo, in grado di rimanere ancorato a valori di multilateralismo, cooperazione e difesa di economie aperte e democratiche.

Un vaso di Pandora che ha scoperchiato qui in Quebec e che sarà difficile chiudere. Trump, checché dica della malafede di potenze amiche, ha sacrificato il G7, che di quell’ordine da oltre quarant’anni è uno dei garanti.

Lo ha seppellito sotto un bombardamento di irati tweet sabato raddoppiati ieri da violentissime dichiarazioni dei suoi consiglieri – in massima parte destituite di fondamento – che hanno accusato paesi amici di tradimenti e furti. Fino a promettere, abbandonando anche le sembianze del decoro diplomatico, un posto all’inferno a qualunque leader la Casa Bianca giudichi infido.

Il barrage di micro-messaggi e invettive che ha sconfessato ogni intesa anche tenue tra alleati potrebbe avere una ragione immediata. L’ha ammessa, inconsciamente, quella sua stessa ristretta cerchia di personaggi fidati quanto diplomaticamente impresentabili: la necessità, molto personale per un leader permaloso e ultra-populista, di apparire nei panni di “duro”. Le circostanze che avrebbero dettato il bisogno di virilità politica? L’azzardato summit di domani con il dittatore nordcoreano Kim Jong Un. Una scommessa che oltretutto, teme parte della stessa Washington, potrebbe tradursi in poco più d’un evento mediatico a vantaggio di Kim e non di Trump e delle sue speranze di Nobel per la pace. Per tacere di svolte a Pyongyang, della causa d’una penisola coreana denuclearizzata o delle aspirazioni alla stabilità internazionale.

Ma la spirale di crisi aperta con gli alleati questa volta potrebbe spingersi ben oltre espedienti e appuntamenti ravvicinati e tradursi in passi indietro di più ampia portata e ardui da recuperare. Se le altre potenze industriali, dall’Europa al Canada e al Giappone, non riusciranno a trovare efficaci antidoti all’isolazionismo della Casa Bianca e a colmare il vuoto di leadership collettiva che ha lasciato, G7 e altri consessi internazionali potrebbero essere ridotti a una famiglia disfunzionale prona a sempre maggiori drammi o melodrammi. I test non mancheranno: nelle prossime sei settimane sono previste decisioni americane sul Nafta e su ulteriori dazi contro la Cina e forse e soprattutto un appuntamento a Bruxelles a luglio al summit Nato. Il clima nelle capitali alleate non promette bene: «Deprimente», è stato il giudizio del Cancelliere tedesco Angela Merkel sul disastro del G7 in Canada. «Una doccia fredda», ha aggiunto un alto funzionario del Vecchio continente nonostante l’abitudine ormai all’imprevedibilità della Casa Bianca.

A mettere sotto accusa Trump e le sue strategie non sono oggi i suoi critici bensì l’arida cronologia dei fatti. Ricordiamola rapidamente. Trump ha oggettivamente e ripetutamente minato il G7: è arrivato tardi e ripartito presto dal summit, senza che ve ne fosse alcuna necessità e senza neppure nascondere che non avrebbe voluto andarci. Ha fatto precedere il proprio arrivo da bordate di attacchi ai partner, in particolare a Francia e Canada. Una volta giunto al palazzo di Charlevoix per il vertice, ha sfoggiato voluta superficialità: ha affermato in pubblico che le relazioni non erano mai state migliori - dando loro un voto massimo da concorso di bellezza di dieci su dieci. Mentre durante incontri riservati si lasciava andare a scomposte arringhe a tu per tu contro gli infiniti presunti crimini economici e commerciali commessi dagli alleati ai danni di un’America beota. Un tema rilanciato nella sua conferenza stampa finale, spesso sconclusionata ma con un messaggio: sono finiti i tempi nei quali gli Stati Uniti si lasciano trattare come il “salvadanaio” derubato da tutti. Ecco poi altre “uscite” parse ai partner puramente provocatorie: la “proposta” di trasformare in G7 in un’area a tariffe e sussidi zero, usata in realtà per giustificare un altro assalto, la minaccia che se gli alleati non cambieranno registro e ascolteranno i diktat americani la sua amministrazione scatenerà sanzioni ben più dure di quelle già molto controverse sull’import di acciaio e alluminio, a cominciare dall’auto.

Infine un ulteriore sfregio al ruolo del G7: l’idea di reinserire senza indugi la Russia nel club dei grandi, ritornando al G8. Un’idea che, se può essere discussa nel merito, da Trump è stata ancora una volta presentata non con i crismi di serietà ma con quelli del guanto di sfida: «Perché la Russia non è qui? Abbiamo un mondo da governare». L’annessione della Crimea che aveva provocato l’estromissione di Mosca, nell’accezione trumpiana della storia, è stata ridotta a «qualcosa accaduto tempo fa».

Ancora: durante le fatidiche trattative a oltranza per arrivare a una dichiarazione finale congiunta del G7 che quantomeno inviasse un segnale incoraggiante su una futura unità ancora possibile, la delegazione americana si è a lungo impuntata su una frase, il tradizionale riferimento all’importanza di un ordine mondiale del commercio basato sulle regole. Ha poi ceduto. Ma dopo tutto questo Trump ha deciso che è stato troppo quando il premier canadese Justin Trudeau ha ripetuto quel che aveva già detto numerose volte durante la propria conferenza stampa finale: che Ottawa avrebbe risposto ai dazi americani e che trova le motivazioni addotte dalla Casa Bianca per sanzionare gli alleati, la minaccia alla sicurezza nazionale, «insultanti». Trump, già partito, dall’aereo ha twittato che ordinava alla sua delegazione di ritirare la firma al comunicato già firmato da tutti, perché Trudeau sarebbe stato «disonesto» e «debole». Non basta: la Casa Bianca ha mobilitato Larry Kudlow - ufficialmente capoeconomista e in verità polemista tv al tramonto ripescato da Trump quale megafono per le sue dottrine - e Peter Navarro - screditato docente noto quale paladino di guerre commerciali. I due, senza remore, hanno definito Trudeau nientemeno che un «traditore», che ha «pugnalato Trump alla schiena» e che, come tutti i leader che tratteranno con l’America in malafede, avrà un «posto speciale all’inferno». Kudlow, esauriti gli improperi, non ha risposto alle domande vere: Trump ha accusato Trudeau di aver mentito, ma il capoeconomista non ha saputo a indicare una sola istanza di menzogne del leader canadese.

Dai leader europei, da Emmanuel Macron ad Angela Merkel fino a Theresa May, sono arrivate espressioni di frustrazione per le scelte della Casa Bianca. Il dilemma vero resta però il da farsi. Vale a dire come trovare gli anticorpi adeguati per contenere un leader quale Trump: dopo un anno mezzo della sua presidenza nessuno sembra più vicino a risolvere questo rebus. Anzi, con un'amministrazione statunitense sempre piu' arroccata su protezionismo e nazionalismo, e' la ricerca che si e' fatta frustrante. Sullo sfondo si fa piu' concreto lo spettro di danni permanenti ai legami transatlantici e tra grandi democrazie, ad una leadership occidentale tre in passato capace di sopravvivere a tensioni e differenze (compresa la guerra in Iraq). I leader alleati sono parsi finora oscillare tra tentativi di persuadere Trump, di perseguire un appeasement, e recenti reazioni più muscolari per contenerlo, ma senza risultati evidenti. Trump non esita oggi a dichiarare bellicosamente, contro ogni previsione di conflitti commerciali senza vincitori e vinti, che la superpotenza al suo comando è in grado di schiacciare amici e nemici che si mettano sulla sua strada.

È una spirale distruttiva che, significativamente, lascia attoniti anche i canadesi, a lungo l’alleato più vicino e fedele oltre che strettissimo partner economico. Da quando il premier conservatore di Ottawa Brian Mulroney cominciò a firmare patti commerciali con Ronald Reagan, poi estesi al Nafta che oggi la Casa Bianca minaccia di abrogare a giorni alterni mentre lo “rinegozia”. Trudeau ha per mesi provato la strada del dialogo con Trump: ha cooptato l’anziano Mulroney, che conosce personalmente Trump da quando questo faceva l’immobiliarista, e nominato una squadra speciale per coltivare con cura le relazioni guidata dal ministro degli Esteri, la 49enne pragmatica (ex giornalista di prestigio e ministro del Commercio Internazionale) Crysthia Freeland. Sforzi di soft power, che hanno tentato di sottolineare a Trump gli storici rapporti di strettissima fratellanza, economica e militare, tra i due Paesi. Questi sforzi sembrano adesso essere stati vanificati. Anche facendo la tara agli eccessi retorici di Trump, l’erosione di fiducia tra i leader è un riconosciuto fenomeno con serie conseguenze in politica estera. In una delle uscite più aggressive Trump è riuscito persino ad accusare i canadesi di aver distrutto la Casa Bianca nel conflitto del 1812 (erano stati gli inglesi). Adesso il Presidente sembra aver scelto di procedere con una autentica dichiarazione di guerra politica contro il Canada. Se serviva un sintomo del virus che minaccia di crescente contagio gli equilibri internazionali e le alleanze occidentali e che cova in seno all’amministrazione statunitense, la crociata contro Ottawa fa decisamente al caso. Trudeau è diventato paradossalmente il grande nemico di Trump - non Vladimir Putin, che va riportato nel G8 nonostante i suoi ancora recenti sforzi di sabotare elezioni in Occidente. Ma un vero antidoto, una risposta chiara e adeguata alle sempre più pesanti incognite di cui Trump si è fatto portatore, ancora manca.

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