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La Cina risponde alla guerra dei dazi Usa: tariffe del 25% su auto,…

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hi-tech nel mirino statunitense

La Cina risponde alla guerra dei dazi Usa: tariffe del 25% su auto, prodotti agricoli e pesce

L’amministrazione Trump apre le ostilità nella grande guerra commerciale che sta preparando con la Cina, e da Pechino è subito arrivata una risposta con analoghe misure di difesa che colpiscono la voce princiaple dell’export americano in Cina: i prodotti agricoli.

Il presidente ha annunciato oggi l’imposizione di dazi del 25% su 50 miliardi di dollari di importazioni cinesi negli Stati Uniti, sulla base di una lista definitiva di prodotti che è stata tratta da un elenco di 1.300 beni messo a punto in aprile. La «lista nera» è stata rivista rispetto alla versione iniziale e prende adesso di mira anzitutto prodotti hi-tech del piano strategico «Made in China 2025». Una prima ondata di dazi per complessivi 34 miliardi di dollari colpirà un gruppo di 818 prodotti a partire dal 6 luglio, seguita da una seconda lista di 284 merci per un valore di 16 miliardi di dazi che scatterà successivamente dopo una consultazione con gli attori economici americani.

Tra i prodotti colpiti da tariffe all’import del 25% figurano auto, elicotteri, aerei, navi, bulldozer, macchinari industriali, macchine utensili, turbine, motori, valvole, hard disk magnetici (qui la lista completa). Esclusi invece beni molto diffusi tra i consumatori americani come smartphone e televisori «made in China».

La guerra commerciale «è stata iniziata anni fa dalla Cina e gli Usa hanno perso», ha detto il presidente americano. Per Trump l'annuncio odierno non è l'inizio di una guerra commerciale tra le due principali potenze economiche al mondo: «Oggi stiamo solo annunciando molti dazi», ha detto rivendicando che «l'economia americana non è mai stata così forte».

Sanzioni per il 25% del valore delle merci
Il piano di Pechino punterebbe a trasformare la Repubblica popolare in un leader tecnologico. La decisione di Trump è arrivata al termine di un incontro di un’ora e mezza che ha coinvolto i vertici del dipartimento del Tesoro e del dipartimento del Commercio oltre che dell’Ufficio del Rappresentante commerciale. Le sanzioni, pari al 25% del valore, sono state presentate da Washington come riposta alle violazioni della proprietà intellettuale da parte di Pechino, compreso il trasferimento forzato di tecnologia a partner locali per consentire ad aziende straniere di operare nel mercato cinese. I primi dazi americani dovrebbero ora scattare nel giro di poche settimane, mentre per una serie di prodotti contenuti nell’elenco entreranno in vigore successivamente.

La contro-reazione di Pechino
Le posizioni americane hanno suscitato secche critiche a Pechino, e nella serata di venerdì è arrivata la reazione: la Cina imporrà una tariffa aggiuntiva del 25% su 659 diversi beni Usa per un valore identico: circa 50 miliardi di dollari. Lo fa sapere una nota del Ministero delle finanze di Pechino, secondo quanto riporta l'agenzia Bloomberg. Le tariffe per circa 34 miliardi su beni Usa importati scatteranno il 6 luglio e includono prodotti agroalimentari (semi di soia, mais, grano, sorgo, carne di manzo e di maiale, pesce, formaggi) e automobili. Per altri beni come medicine, materiale medico e prodotti energetici la data in cui verranno introdotte le tariffe sarà comunicata più avanti.

Escalation del conflitto (commerciale)
La mossa e contromossa rappresentano una concreta quanto drammatica escalation del conflitto tra le prime due potenze economiche al mondo e rischia di affossare le speranze di soluzioni diplomatiche avvicinando rapidamente l’esplosione di un vasto conflitto dalle incerte conseguenze. L’amministrazione Trump era parsa nel recente passato disposta a soluzioni concilianti, ipotizzando un congelamento delle procedure sui dazi mentre proseguivano trattative tra le parti. Ma ha poi virato nuovamente e bruscamente verso posizioni intransigenti, respingendo una proposta cinese di maggiori acquisti di beni americani. Mercoledì Trump stesso aveva dichiarato che la Cina non sarebbe stata affatto contenta delle prossime, determinate mosse di Washington sul commercio. La partita, che secondo gli analisti se uscisse fuori controllo ha il potenziale non solo di danneggiare il commercio mondiale ma di innescare una recessione, potrebbe essere soltanto agli inizi. La Cina ha minacciato di rispondere con rappresaglie di identica entità, che ha già approntato. E Trump ha promesso di alzare la posta in gioco identificando dazi su altri cento miliardi di beni cinesi accanto a crescenti restrizioni sugli investimenti di Pechino negli Stati Uniti.

Né la politica commerciale aggressiva dell’amministrazione è oggi limitata all’avversario cinese, un aspetto che alimenta i rischi globali: Trump ha di recente rotto platealmente con gli alleati del G7 proprio sull’interscambio, ritirando la firma al comunicato finale dell’ultimo summit in Canada perché il premier di Ottawa Justin Trudeau aveva criticato dazi statunitensi imposti ai paesi amici su acciaio e alluminio e motivati con la sicurezza nazionale (i maggiori esportatori dei due metalli negli Usa sono Canada e Unione Europea). Non basta: Trump ha anche minacciato gli alleati di ulteriori dazi sulle auto di importazione, che colpirebbero anzitutto marchi tedeschi e giapponesi. E continuato ad attaccare paesi europei come i partner nordamericana Canada e Messico alla stregua di ladri e approfittatori nei rapporti commerciali con gli Stati Uniti.

Rischi per Pil e posti di lavoro
Un atteggiamento che nell’insieme ha sollevato accuse di aperto protezionismo e di abbandono da parte americana di ogni leadership nel libero scambio e nel suo sistema internazionale di regole.
La controversa politica di Trump fa discutere anche negli Stati Uniti, tra chi sostiene la sua scelta nazionalistica e chi pronostica invece effetti negativi e controproducenti per la stessa America. Il think tank conservatore Tax Foundation ha calcolato l’impatto dei primi nuovi dazi alla Cina sull’economia statunitense ed è l'opposto di quello ottimista rivendicato da Trump: ridurrà nel lungo periodo il Pil e i salari dello 0,06% e provocherà la perdita di almeno 45mila posti di lavoro.

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