Il caso di Aquarius, la nave respinta dalle coste italiane con 629 migranti a bordo, ha fatto tornare alla ribalta un vecchio repertorio di accuse alle Ong che solcano le acque del Mediterraneo. La tesi, sposata anche da diversi esponenti del centrodestra, è che le Ong servano da «taxi del mare» dal Nord Africa all'Italia, in un rapporto di connivenza con i trafficanti di esseri umani attivi sulla costa della Libia. Alle spalle del tutto ci sono anche ipotesi più pittoresche, ma accreditate sul Web, come quella di un «complotto» per la deportazione di forza lavoro a basso costo o una specie di regia oscura del finanziere americano George Soros.
I fondamenti dell'accusa? Tecnicamente nessuno, perché non sono mai emerse prove in materia. La Procura di Palermo ha anzi appena archiaviato due indagini distinte sulle Ong SeaWatch e Proactiva Open Arms, lasciando cadere l'inchiesta perché «non si ravvisano elementi concreti» per ipotizzare legami «tra i soggetti intervenuti nel corso delle operazioni di salvataggio a bordo delle navi delle Ong e i trafficanti operanti sul territorio libico».
Quante sono le Ong nel Mediterraneo
Le organizzazioni non governative presenti nel Mediterraneo sono calate dalle 12 del 2017 alle quattro rimaste sull’acqua ora: le tedesche SeaWatch e Mission Lifeline, la franco-tedesca Sos Méditerranée (che ospita a bordo delle sue imbarcazioni un team di assistenza medica di Medici senza frontiere, un tempo attiva con cinque imbarcazioni) e la spagnola ProActiva. L'incidenza dei loro salvataggi sul totale, secondo una ricostruzione Ispi (L’Istituto per gli studi di politica internazionale), è passato da meno dell'1% nel 2014 al 41% nel 2017, allineandosi all'esplosione della crisi migratoria nel triennio 2015-2017. Nel 2017, l'allora ministro degli Interni Marco Minniti ha imposto la firma di un «codice di condotta» che prevede, fra le altre cose, il divieto di intervenire nelle acque libiche. Tra i no più eclatanti c'è stato quello di Medici senza frontiere, rimasta comunque attiva nelle attività di soccorso in collaborazione a Sos Méditerranée.
Come «guadagnano» dalla loro attività di soccorso?
Per definizione, le Ong sono organismi no-profit: svolgono il proprio lavoro senza fini di lucro, foraggiandosi con donazioni esterne. I finanziamenti sono spesso privati e arrivano da singoli cittadini, aziende e fondazioni. La divisione italiana della più grande Ong attiva fino all'anno scorso, Medici senza frontiere, ha chiuso il 2017 con “proventi” (donazioni) per 57,9 milioni di euro da 292.742 finanziatori. Il raccolto, a quanto dichiara Msf in un resoconto pubblico, viene destinato per l'81% a missioni sociali, per il 17% a sostenere raccolte fondi e per il 2% per la gestione dell'organizzazione. Su scala globale, Msf ha speso nel 2017 circa 1,6 miliardi di euro in missioni. Le attività di soccorso nel Mediterraneo incidono per meno dell'1% sul budget complessivo: 8,9 milioni. «Anche nei periodi di picco delle attività di soccorsi, la componente Mediterraneo valeva per meno del 3% sul totale delle missioni» spiega Gabriele Eminente, direttore generale Msf. Raggiunta dal Sole 24 Ore, la Ong SeaWatch fa notare che si finanzia sempre con donazioni private, generate per il 98% in Germania e dichiarate all'equivalente dell'agenzia delle entrate locale.
I salvataggi in mare, chi chiama chi
Come ha già scritto il Sole 24 Ore, gli interventi di soccorso sono sempre coordinati dal Maritime rescue coordination centre (Mrcc): un organismo internazionale rappresentato in Italia dal Comando generale della Guardia costiera di Roma. In breve, il primo Mrcc che riceve un allarme incarica del soccorso l'imbarcazione più vicina all'emergenza. Nella prospettiva di una Ong, questo si traduce nell'entrare in azione solo quando arriva l'ordine delle autorità: «Una Ong si può muovere in due casi - spiega Marco Bertotto, responsabile Advocacy di Msf - O perché riceve una chiamata di soccorso dall'autorità oppure quando fa un avvistamento diretto. Ma nel secondo caso deve comunque informare il centro di coordinamento e attenderne le istruzioni».
Ed è vero che le Ong “incoraggiano” a partire?
Come ha appurato ancora l'Ispi, non esiste una correlazione dimostrata tra le attività di salvataggio (quante persone sono soccorse in mare) e la propensione a partire. «In altre parole - spiega Matteo Villa, ricercatore Ispi - L'attività delle Ong non fa aumentare né diminuire gli arrivi. E se è per questo gli sbarchi non dipendono neppure dalla Guardia costiera libica. Il traffico inizia sulla terraferma e non ha pertinenza con i salvataggi». Più che altro è vero, come fa notare ancora l'Ispi, che l'Italia è rimasta isolata nella gestione dei migranti dopo gli sbarchi. Sulle 350mila persone approdate in Italia dal 2015 al 2018, appena 35mila (il 10%) sono state avviate al ricollocamento. Poche? Sì, ma quelle davvero accettate fuori dalla Penisola sono meno ancora: 13mila. Più che le Ong, le responsabilità sembrano insomma scaricarsi sul regolamento di Dublino III e le condizioni sfavorevoli ai paesi più esposti alle rotte del Mediterraneo.
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