Nel suo ufficio all’interno della redazione di Sabah, uno maggiori quotidiani turchi filo-governativi, il professor Kerem Alkin evita toni retorici. «Un surriscaldamento dell’economia? Non credo che avverrà. Certo, molte imprese turche che hanno contratto debiti in valuta pregiata potrebbero avere serie difficoltà. Ci sono le premesse per una crisi moderata nel settore privato. Bisogna adottare subito delle misure». Ma alla domanda se vi sarà una grave crisi di liquidità in valuta estera il professore risponde. «Difficoltà sì, ma sicuramente non una crisi».
Ayfer Yilmaz, ex ministro di Stato senza portafoglio, e ora vicepresidente del nuovo partito di opposizione Iyi, di cui è il responsabile dell’economia, la pensa diversamente. «Un surriscaldamento dell’economia – ci spiega - è già in atto. Stiamo pagando il conto di anni di politica economica populista. Il governo non ha effettuato gli investimenti nei settori che avevano realmente bisogno, come le tecnologie. Occorre un drastico cambio di rotta per riconquistare la fiducia dei mercati».
Qualunque sia la versione dei fatti, l’economia è il tema dominante di quelle che appaiono forse le più importanti – e meno scontate - elezioni nella storia della Turchia. Più importanti perché sarà il primo voto che riunirà parlamentari e presidenziali. E soprattutto che sancirà l’entrata in vigore del referendum costituzionale approvato nell’aprile del 2017 che trasformerà la Turchia in una sorta di repubblica presidenziale in cui il presidente avrà poteri molto più forti. Meno scontate perché quella di domani non sarà la cronaca di un plebiscito annunciato a favore di Erdogan, di fatto al potere dal 2003. Riguardo alle parlamentari gli ultimi sondaggi danno un testa a testa tra la coalizione guidata dal partito di governo, l’Akp, e quella, questa volta coesa, dell’opposizione . Quanto alle presidenziali, si sta facendo strada la probabilità che nessuno dei candidati raggiunga il 50 per cento. Nell’eventuale ballottaggio, domenica 8 luglio, Erdogan resta comunque il più accreditato alla vittoria. Il voto doveva tenersi nel novembre del 2019. Erdogan ha deciso di anticiparle. Perché? Voleva essere riconfermato prima che l’economia peggiorasse. Ma è troppo tardi, sostengono i suoi oppositori.
Il miracolo economico turco - nel 2017 la crescita è stata comunque del 7,4% così come nel 1° trimestre del 2018 - sta facendo intravvedere le sue crepe. Il deficit delle partite correnti ha superato il 5,5% del Pil, l’inflazione in maggio ha toccato il 12,5%, la lira turca si è svalutata del 50% dal 2015. I tre rialzi dei tassi di decisi dalla Banca centrale negli ultimi due mesi – misura che ha profondamente irritato Erdogan – hanno riportato una certa stabilità. Ma sul medio termine potrebbero non essere sufficienti. E se Erdogan dovesse riconfermarsi presumibilmente cercherà di portare avanti la sua battaglia contro il rialzo dei tassi. Uno scenario che potrebbe far fuggire gli investitori stranieri.
In un’elegante villa di fine 800 che si affaccia sul Bosforo, tre manager dell’Ispat, l’agenzia governativa turca per il sostegno e la promozione degli investimenti, usano toni rassicuranti. «L’economia turca è solida e continua a mostrare grandi potenzialità - precisa Necmettin Kaymaz, Chief project director -. Gli investimenti diretti stranieri (Fdi) sono sì calati negli ultimi anni, ma seguendo il trend mondiale. Per esempio nel 2017 in Turchia hanno registrato un calo del 18%, ma è stato inferiore alla media mondiale che è stata del 23%. La Turchia è un Paese attraente per gli investitori: un costo del lavoro basso, incentivi, manodopera qualificata. Nel medio termine gli Fdi riprenderanno a crescere».
«Quello che preoccupa di più – ammette il professore Kerem - è l’inflazione e il deficit delle partite correnti. Il Governo ha bisogno di entrate in valuta pregiata per finanziarlo. I flussi di capitali stranieri sono scesi, soprattutto nell’ultimo mese e mezzo. Ma il debito pubblico è ancora piuttosto basso, meno del 30% del Pil. Quanto all’inflazione, resta il nostro maggior problema, ma si tratta di un’inflazione da costi crescenti, e non da consumi. Alzare troppo i tassi potrebbe essere controproducente». Discorsi troppo tecnici per molte persone qui a Istanbul, preoccupate invece per la perdita del loro potere di acquisto. Non poche di loro credono alla versione di Erdogan, secondo cui la svalutazione della lira è opera di un complotto straniero. «Ma quale complotto? – ribatte Ayfer Yilmaz -. Dobbiamo cambiare subito la politica economica per riguadagnare la fiducia dei mercati. In quest’ottica è indispensabile che la Banca centrale sia indipendente Il Governo non deve interferire».
«Per superare questo momento di difficoltà saranno indispensabili misure per ridurre le spese governative nei prossimi 18 mesi. In quest’ottica, se non arriveranno grandi investimenti stranieri a finanziarli, i grandi progetti infrastrutturali dovranno essere sospesi», sottolinea il professor Alkin. Già, il piano faraonico di Erdogan: 200 miliardi di dollari per realizzare autostrade, ferrovie, il gigantesco terzo ponte sul Bosforo, già inaugurato, e il nuovo aeroporto che sarà aperto in ottobre, il più grande del mondo. E tutti gli altri ancora da iniziare, tra cui il canale artificiale che raddoppierà il Bosforo. La Turchia se li può davvero permettere?
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