New York - General Motors contro Donald Trump. O meglio, contro i dazi di America First. La principale casa automobilistica americana ha avvertito che eventuali barriere tariffarie del 20% o 25% minacciate dalla Casa Bianca sulle vetture e la componentistica d'importazione, in aggiunta alle spirali di sanzioni già entrate in vigore su acciaio e alluminio, rischiano di avere un chiaro e deleterio effetto boomerang, danneggiando occupazione e espansione dell'azienda e del settore. Provocheranno, per l'esattezza, «meno investimenti, meno posti di lavoro e salari più bassi».
La posizione di Gm è stata resa nota in commenti formali inviati al Dipartimento del Commercio - finora un totale di 2.500 - che sta portando avanti su ordine del Presidente una indagine volta a determinare se ci sono ragioni di sicurezza nazionale per intervenire contro l'import nell'automotive. L'azienda ha sottolineato che, oltretutto, le auto più colpite saranno quelle destinate ai consumatori meno abbienti, parte cruciale della base di Trump, e che meno sono in grado di fare i conti con sicuri rincari dei prezzi, provocando riduzioni della domanda e frenate della produzione. Una miscela che potrebbe condurre a un ridimensionamento della Gm stessa - letteralmente a una «Gm più piccola».
La casa di Detroit, in passato complimentata da Trump come pilastro del made in Usa, fa leva su molte parti importate per i suoi veicoli. Ha 47 impianti negli Usa, 25 sedi per assistenza e componenti e 110.000 dipendenti domestici dove ha concentrato anche le attività a più alto valore aggiunto, di ricerca e design. Nuovi dazi e barriere danneggerebbero aziende americane durante una «rapida rivoluzione nei trasporti guidata da tecnologie d'avanguardia. La solidita' economica di imprese come la nostra sostiene direttamente la forza economica del Paese e quindi la sicurezza degli Stati Uniti».
La prospettiva di una continua escalation di guerre commerciali comincia a preoccupare seriamente, non solo Gm. Fiat Chrysler Automobiles, stando a interviste di Bloomberg con suoi executive, sta a sua volta considerando nuove opzioni manifatturiere. «Piani per ogni contingenza su vasta scala», li ha descritti Bob Lee, dirigente nel campo del gruppo motori. Per rimanere nel settore dei mezzi di trasporto, un altro marchio iconico, la società di motociclette Harley-Davidson ha annunciato nei giorni scorsi che per evitare l'impatto di ritorsioni europee contro i dazi di Trump sposterà parte della produzione all'estero.
La Corporate America è stata finora nervosa nell'uscire allo scoperto contro un Presidente che non ha lesinato la predisposizione a inediti attacchi diretti contro imprese che ritiene lo “tradiscano” - ultimo esempio proprio l'aggressione verbale contro Harley-Davidson. Ma sta alzando il tiro contro le politiche più protezionistiche dell'amministrazione che teme possano danneggiare profondamente mercati e catene di fornitura e produzione globali. Un crescente numero di associazioni e lobby di business sta presentando documenti pro libero scambio e critici dell'approccio unilaterale caratterizzato da dazi e contro-dazi preferito dalla Casa Bianca.
Le tensioni commerciali si sono moltiplicate non solo con “avversari” quali la Cina, contro la quale il 6 luglio scatterà una prima tranche di dazi su 34 miliardi di beni importati con la prospettiva che si arrivi fino a 450 miliardi, ma anche nei confronti di alleati quali l'Unione Europea, che Trump ha ripetutamente attaccato come creata apposta in funzione anti-americana, e Canada e Messico, con in quali Washington è impegnata in polemici negoziati per riformare l'accordo nordamericano di free trade Nafta. Sull'acciaio sono entrati in vigore dazi del 25% e sull'alluminio del 10 per cento.
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