Sarà una Libia a trazione italiana oppure prevarrà la linea portata avanti con caparbietà dal presidente francese Emmauel Macron? Lungi dall’esser ancora risolto, il duello diplomatico tra Francia e Italia per imporsi come mediatore nella transizione della Libia, ed eventualmente raccoglierne in futuro i frutti (anche economici), rischia di aprire un pericoloso vuoto di potere in cui a perdere potrebbero essere tutti. Primi fra tutti gli stessi libici. Che dopo sette anni dalla caduta del regime di Muammar Gheddafi si ritrovano ancora con un Paese spaccato in due, dove le gang criminali e le milizie si spartiscono i lucrosi business del contrabbando e della tratta di esseri umani. Ancora oggi il potente generale Khalifa Haftar governa indisturbato in Cirenaica, mentre il suo rivale Fayez Serraj, il premier del Governo di accordo nazionale sostenuto dall’Onu, fatica a imporre la propria autorità in Tripolitania.
Con una serie di iniziative diplomatiche unilaterali Parigi sembrava in vantaggio. Ma il colloquio avvenuto lunedì tra il presidente americano Donald Trump e il premier italiano Giuseppe Conte ha sparigliato nuovamente le carte. Trump avrebbe scelto l’Italia come promotore della stabilizzazione della Libia. A sancire questo nuovo sodalizio, in autunno si terrà a Roma una Conferenza internazionale sulla Libia. La presenza degli Stati Uniti conferisce autorevolezza al vertice e rafforza il ruolo italiano a scapito di quello francese.
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Se così fosse il piano di Macron, che poggiava su basi non troppo solide, subirebbe una brusca battuta d’arresto. Forte della Conferenza organizzata a Parigi lo scorso 29 maggio, a cui avevano partecipato i maggiori rappresentanti delle diverse fazioni libiche e i Paesi stranieri che da tempo esercitano la maggiore influenza sul Paese, Macron aveva esibito con orgoglio un documento in 13 punti in cui veniva disegnato, peccando di ottimismo, il futuro della Libia. Tra i punti più rilevanti di questa intesa - peraltro non firmata - vi erano lo svolgimento delle elezioni parlamentari e presidenziali già in dicembre, precedute o seguite da un referendum per l’approvazione della Costituzione (ancora in elaborazione). Altro punto complesso era la formazione di quell’esercito libico nazionale - previo il disarmo delle oltre 100 milizie - che in sette anni non è mai venuto alla luce.
L’iniziativa unilaterale di Macron, che replicava un altro vertice convocato unilateralmente a Parigi nel luglio 2017 tra Serraj e Haftar, aveva provocato il disappunto dell’Italia. Con un presidente americano disinteressato al Nord Africa, Macron è determinato a estendere l’influenza francese sulla Libia. Possibilmente ottenendo delle contropartite. I giacimenti del golfo della Sirte (greggio di qualità e geograficamente vicino), ancora da esplorare, rappresentano una grande opportunità per le major energetiche europee. In marzo la francese Total ha acquistato dall’americana Marathon Oil il 16% del giacimento di Waha (in Cirenaica) per 450 milioni di dollari. Un accordo tuttavia non ritenuto valido dal governo di Tripoli. L’italiana Eni, da sempre primo operatore straniero in Libia, non è stata certo a guardare. Lo conferma l’incontro, lunedì a Tripoli, tra l’ad di Eni,Claudio Descalzi, e il premier libico Serraj, in cui è stato fatto il punto sulle attività correnti dell’Eni in Libia e sulle future opportunità esplorative e di investimento .
Al di là dell’intesa raggiunta a Parigi,finora le fazioni libiche non hanno fatto concreti passi in avanti. E a dicembre mancano solo quattro mesi. La strategia diplomatica italiana, riconfermata da Conte, parte da un reale processo di riconciliazione nazionale,primo passo per una stabilizzazione. In seguito le elezioni. È un approccio che richiede tempi più lunghi. Ma è quello più pragmatico.
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