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Lavoro, i contratti a termine ci sono in tutta Europa. Ma in Italia…

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TRA ISTAT E RAPPORTO SVIMEZ

Lavoro, i contratti a termine ci sono in tutta Europa. Ma in Italia mancano le tutele

In almeno un settore, l’Italia recupera terreno sull’Europa: i contratti instabili. Gli ultimi dati Istat hanno evidenziato una crescita dei rapporti a tempo determinato pari a +16mila unità tra maggio e giugno 2018 e +394mila unità rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, a fronte di una discesa dei contratti a tempo indeterminato di 56mila unità su scala mensile e 83mila unità su scala annuale. Niente di nuovo, sul medio periodo. L’incidenza dei rapporti a tempo determinato sul totale è aumentato dal 13,2% del 2008 al 15,5% che si registrava nel 2017, accelerando un ritmo di crescita già ingranato nell’immediato dopocrisi.

I numeri avvicinano la Penisola agli standard dell’Eurozona, dove i «temporary employment» valgono per il 16% dei contratti totali, con picchi del 21,6% nei Paesi Bassi e del 26,8% in Spagna. La riduzione di un gap? Sì, se non fosse per un particolare. Nel resto dei paesi Ue, il ricorso al tempo determinato è bilanciato da investimenti maggiori in politiche attive, gli interventi per facilitare il sostegno dell’occupazione nei periodi di instabilità: dalla formazione, ai tirocini formativi, agli assegni di ricollamento. In Italia, l’aumento di contratti a termine non si appoggia a una rete di protezione sociale simile a quella che tiene in piedi la flessibilità di altri mercati Ue.

Più vicini all’Europa, ma solo sull’instabilità
Gli ultimi dati Istat portano il totale di occupati «a scadenza» oltre i 3,1 milioni su scala italiana, il valore più alto mai raggiunto finora. Nell’arco di quasi due decenni, dal 1998 al 2017, l’incidenza complessiva dei contratti a termine è lievitata dall’8,6% del 1998 al 15,5% del 2017, accorciando le distanze rispetto al mercato europeo e a quelle che sono giudicate le «soglie fisiologiche» dei rapporti temporanei. Ora l’incidenza di contratti a termine sul totale è leggermente superiore alla media Ue del 14,3% e leggermente inferiore a quella dell’Eurozona, come abbiamo visto pari al 16%. Il problema è che la flessibilizzazione dei rapporti di lavoro non si è accompagnata alla crescita di investimenti in politiche attive, soprattutto negli anni che hanno visto esplodere il tempo determinato rispetto ai contratti permanenti. Un giovane scandinavo può permettersi di passare da un contratto di lavoro all’altro perché si trova nel vivo di un mercato vivace, dopo la flessibilità dei rapporti è bilaterale: conviene sia all’impresa che al dipendente, sostenuto da reti di protezione che vanno dai sussidi alla formazione attiva. In Italia, la fine di un contratto di pochi mesi o anni viene vissuta come un salto nel vuoto, “grazie” alla combinazione tra bassi ritmi di crescita e l’insufficenza di misure attive per il lavoro.

Secondo dati Ocse riferiti al 2014, l’Italia ha messo sul piatto una cifra pari a meno dello 0,5% del Pil in politiche attive, contro l’1% abbondante della Francia e il quasi 2% della Danimarca. Sempre nel 2014, la spesa per disoccupato della Francia viaggiava sui 7.480 euro a disoccupato, contro i 1.800 euro dell’Italia. «Ci stiamo avvicinando agli standard europei, e fin qui nulla di strano - dice Francesco Bacchini,professore di diritto del lavoro all’Università Milano Bicocca - Il dramma è che non ci siamo voluti accorgere di quanto stesse cambiando l’economia nel frattempo». Ma non è tutto. Accanto alla crescita «fisiologica» del tempo determinato, si sono rinforzati fenomeni patologici come il part-time involontario e la sottoccupazione. Tra 2007 e 2017, secondo dati Istat, il totale di sottoccupati e lavoratori a tempo parziale per scelta altrui è quasi raddoppiato dall’1,6% al 3,1%. A farne le spese soprattutto la categoria più vulnerabile sul mercato, i giovani: tra i 25 e i 34 anni la quota è salita dall’1,9% del 2007 al 4,6% del primo trimestre 2018, mentre fra i 25 e i 34 anni si arriva a un rialzo dal 2,2% al 6,2 per cento.

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