Ci risiamo. Il 12 settembre, alla plenaria di Strasburgo, il Parlamento europeo torna a votare la cosiddetta riforma del copyright: una direttiva sul diritto d’autore che ha già scatenato una guerra di pressioni lobbistiche a Bruxelles. L’Eurocamera aveva respinto a luglio il via libera al mandato negoziale, riaprendo il dibattito e facendo slittare il verdetto alla riunione della settimana prossima. Oggi scadono i termini per presentare gli emendamenti e far arrivare in aula la nuova versione testo. Probabilmente quella definitiva, anche in caso di flop: a maggio 2019 si torna alle urne per le elezioni europee ed è difficile che si trovi il tempo il tempo per ridiscutere una riforma già data per «morta» dopo i 318 no dello scorso 2 luglio.
Cosa prevede la direttiva
La direttiva sul Digital single market èstata proposta dalla Commissione nel 2016, in sostituzione di un testo risalente al 2001, con l’intenzione di rinfrescare le norme Ue sulla protezione del diritto
d’autore nell’era dell’informazione digitale. A grandi linee, l’obiettivo è di assicurare ai produttori di contenuti editoriali,
cinematografici e musicali una remunerazione adatta da parte dei «prestatori di servizi di condivisioni online», cioè i colossi
del web come Google, Facebook e altre piattaforme che monetizzano l’intermediazione di contenuti generati da terzi. A far
discutere sono stati soprattuto gli emendamenti apportati dalla Commissione giuridica agli articoli 11 e 13 del testo originario,
contenuti nel testo presentato all’Eurocamera (e bocciato) alla plenaria dello scorso luglio.
L’emendamento all’articolo 11 è diventato noto come «link tax», anche se non si parla di tassare i collegamenti ipertestuali. L’Ue imporrebbe agli Stati membri di fornire agli editori di «pubblicazioni giornalistiche» diritti che permettano loro di «ottenere una giusta e proporzionata remunerazione per l'uso digitale delle loro pubblicazioni dai provider di informazioni (le piattaforme già citate sopra, ndr)». Il vincolo non esclude l’utilizzo di quelle stesse pubblicazioni in forma privata e non commerciale, oltre a raccomandare che «gli autori siano sicuri di ricevere un'appropriate del valore aggiunto incassato dagli editori dall'uso delle proprie pubblicazioni».
L’articolo 13, sempre dopo l’emendamento della Commissione giuridica, ha incluso una misura ribattezzata «upload filter» (filtro sugli upload). In breve, le piattaforme online sono chiamate a «siglare contratti di licenza con i proprietari dei diritti, a meno che questi non abbiano intenzione di garantire una licenza o non sia possibile stipularne». In assenza di un accordo, gli stessi fornitori di servizi online devono predisporre «misure appropriate e proporzionate che portino alla non disponibilità di lavori o altri argomenti che infrangano il diritto d'autore o diritti correlati». Quindi, appunto, istituire un “filtro” che vigili sul rispetto del diritto d’autore e intercetti i contenuti che lo violano.
Il fuoco incrociato delle lobby(e del Parlamento)
L’argomento aveva già alzato la temperatura della scorsa plenaria, quando la tradizionale attività di lobbying si era spinta
fino alla denuncia di «minacce» e interferenze all’attività parlamentare. L’atmosfera per il voto del 12 settembre si annuncia
anche più tesa, complice la consapevolezza che il sì e no dell’Eurocamera equivarrà a una parola definitiva sul testo. Da
un lato ci sono i rappresentanti della cosiddetta industria culturale, dagli editori (oggi è arrivata la lettera congiunta
della Federazione italiana editori giornali e dell'Enpa, l'associazione degli editori europei) alla case discografiche, passando
per mobilitazioni di massa come Europe for creators: un movimento di sensibilizzazione promosso da Gesac, organizzazione che conta circa 12 milioni di creativi e autori in Europa.
Dall’altro resiste la contrarietà delle stesse piattaforme online, da Google a Facebook, senza dimenticare realtà più giovani
dell’economia digitale. Se i colossi temono ritorni sui fatturati (miliardari) della pubblicità online, le imprese di dimensione
minore denunciano il rischio di una stretta sul proprio business, con il paradosso di favorire ancora di più le stesse multinazionali.
Le frizioni, però, arrivano anche al cuore della stessa Eurocamera. A eccezione del Partito popolare europeo, abbastanza compatto per il sì, tutti i gruppi parlamentari si sono divisi a luglio e sembrano pronti a scontri intestini in vista del 12 settembre. Una delle forze più in bilico sono i Socialdemocratici, spaccati a metà fra gli sponsor di una direttiva «contro lo strapotere dei giganti tech» e chi intravede i rischi di un bavaglio sulla libera circolazione delle informazioni online. In occasione dell’ultimo voto di luglio, anche la rappresentanza italiana dell’S&D si è “sdoppiata” fra i voti favorevoli degli eurodeputati Pd (da Paolo De Castro a Silvia Costa) e quelli a sfavore dei colleghi più a sinistra (fra gli altri Sergio Cofferati, Elly Schlein e Flavio Zanonato).
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