DAL NOSTRO INVIATO A STRASBURGO - Adesso è ufficiale. L'Europarlamento è chiamato a votare giovedì a mezzogiorno la proposta di direttiva sul copyright, emendata dalla Commissione giuridica lo scorso giugno. Il verdetto arriverà alla plenaria di Strasburgo, ma nessuno sembra disposto a sbilanciarsi su un pronostico. I fronti sono noti: da un lato c'è chi considera la direttiva «un bavaglio» alla libertà di espressione e, dall'altro, chi la promuove come una misura di sopravvivenza al monopolio dei colossi tech sui contenuti diffusi in Rete. Un divario di vedute che non risparmia gli otto gruppi politici dell'Eurocamera, preannunciando una votazione in bilico fino agli ultimi conteggi. Ma cosa dicono, esattamente, i due articoli incriminati (anzi, tre, considerando le premesse)?
Articolo 2: a chi si rivolge la direttiva?
Il testo, si legge in un emendamento all'articolo 2, si rivolge ai «provider (fornitori, ndr) di contenuti online condivisi» che hanno come principale obiettivo quello di «dare accesso al pubblico a lavori coperti da copyright o altri argomenti caricati dai suoi utenti». In altre parole, alle piattaforme che diffondono contenuti online prodotti da altri per fini commerciali: da Google a YouTube a Facebook, per citare tre degli esempi che ricorrono più spesso fra i corridoi di Strasburgo.
Dalla direttiva sono esclusi i «servizi che che agiscono in un'ottica non commerciale come le enciclopedie online e i fornitori di servizi online dove i contenuti vengono diffusi in accordo con gli aventi diritto, come nel caso di archivi scientifici o educativi», oltre a fornitori di servizi cloud, piattaforme open source e marketplace online per la vendita di prodotti fisici (l'e-commerce).
Articolo 11: “la tassa sui link” (che non esiste)
Nell'articolo 11, gli emendamenti apportati dalla Commissione giuridica impongono agli stati membri di fornire agli editori di «pubblicazioni giornalistiche» diritti che permettano loro di «ottenere una giusta e proporzionata remunerazione per l'uso digitale delle loro pubblicazioni dai provider di informazioni (le piattaforme già citate sopra, ndr)».Nell'articolo si stabilisce che gli autori stessi dei contenuti sono liberi di diffonderli ed utilizzarli indipendentemente dai propri editori, oltre a sancire alcuni principi (la numerazione è di chi scrive, ndr): 1) non bisogna impedire l'uso privato e a fini non-commerciali dei contenuti, 2) non bisogna tassare il collegamento ipertestuale in sé, 3) le regole non possono applicarsi in maniera retroattiva e 4) bisogna far sì che «gli autori siano sicuri di ricevere un'appropriate del valore aggiunto incassato dagli editori dall'uso delle proprie pubblicazioni».
Articolo 13: il “filtro” sui contenuti
L'articolo 13, per come è stato emendato dalla Commissione giuridica dell'Europarlamento, impone alle piattaforme online di «siglare contratti di licenza con i proprietari dei diritti, a meno che questi non abbiano intenzione di garantire una licenza o non sia possibile stipularne». Gli accordi in questione devono coprire anche gli utenti che “caricano” contenuti online, sempre che non agiscano per fini commerciali o non coincidano con i legittimi proprietari dei diritti. In assenza di un accordo scatta quella che è diventata noto come “upload filter”: un filtro sui contenuti che vengono caricati online. «Le piattaforme - si legge nel testo - devono intraprendere, in cooperazione con i detentori dei diritti, misure appropriate e proporzionate che portino alla non disponibilità di lavori o altri argomenti che infrangano il diritto d'autore o diritti correlati, mentre quelli che non infrangono queste regole possono rimanere disponibili».
Perché si: si riconoscono gli autori dei contenuti, siamo fermi al 2001
Silvia Costa, eletta all'Europarlamento nelle liste nel Pd, ritiene che la direttiva sia un «passaggio fondamentale» per aggiornare le regole sul lavoro intellettuale nell'era di Google, Amazon e gli altri colossi che ispirano le nostre scelte sul Web. «Abbiamo una direttiva sul diritto d'autore del 2001, quando c'era solo eBay, è cambiato tutto – dice - Si tratta di dire che il contenuto deve avere un suo riconoscimento anche sulla rete». Costa sottolinea che la misura non avrà impatti sugli utenti («Per l'utente non cambia nulla e neppure per le enciclopedie online. Chi vuol capire...») e respinge l'ipotesi di un «regalo agli editori»: semmai, dice, l'intenzione è di fissare qualche paletto in più a difesa degli autori. Nel mirino ci sono le multinazionali del tech, ma in un'ottica – a suo dire – del tutto neutrale. «Google e Amazon non sono nemici, vanno regolamentati. Non abbiamo nulla contro i nuovi modelli di business». Però c'è chi teme usi distorsivi dei “filtri”, ad esempio in chiave di censura: «Nella direttiva non si parla di censura indiscriminata, ma di cooperazione fra il Web e i proprietari di diritti – replica – È un rischio inesistente».
Perché no: rischi di censura
Isabella Adinolfi, eurodeputata Cinque stelle, è fra la parlamentari che si è spesa contro il testo uscito dalla Commissione giuridica dell'Europarlamento. «La questione non è tutelare i creativi, perché è ovvio che siamo d'accordo – dice - Ma qui si tentare di normare internet con regole obsolete, sia per l'articolo 11 che per l'articolo 13. Internet corre a una velocità incredibile, queste regole sono già vecchie». In particolare, spiega Adinolfi, il rischio è che «si penalizzino solo i piccoli – dice – I grandi hanno le spalle sufficientemente solide e, come Google, possono decidere di non indicizzare più contenuti che rimandano a notizie. Ma i piccoli?». Quanto all'articolo 13, il meccanismo del filtro «può degenerare in filtri sempre più stretti, a discrezione delle piattaforme e dei loro algoritmi – spiega - Non ci dimentichiamo un fatto: siamo già responsabili di quello che pubblichiamo, serve un nuovo regolamento?»
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