SAN PAOLO – Alvaro Pinheiro aspira a una nuova vita: a cinquantatrè anni ha da poco messo fine a una carriera lanciatissima che lo aveva portato in giro per il mondo con varie multinazionali, tra le quali Chevron, Procter & Gamble e DuPont.
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Adesso ha deciso di prendere la vita con più calma, e di cercarsi un posto di lavoro meno impegnativo nell'amministrazione
pubblica brasiliana, che gli darà sicurezza, uno stipendio decoroso e un piano pensionistico generoso. «Quando lavoravo nel
mondo delle grandi corporation, per un certo periodo mi sono ammalato a causa dello stress dovuto agli impegni di lavoro.
Nel settore pubblico, invece, si possono mantenere ritmi di lavoro meno frenetici» dice. Percepirà uno stipendio inferiore
a quello che era solito guadagnare, ma avrà una pensione più alta. «L'aspetto più allettante, in ogni caso, è la migliore
qualità della vita».
L'ex dirigente sta studiando per superare un esame di ammissione e diventare revisore contabile nel fisco brasiliano. Non è certo l'unico: si calcola che nel 2018 i posti di lavoro nell'amministrazione civile a disposizione di chi supererà le selezioni saranno 162mila. Ogni anno si cimentano nell'esame tra i dodici e i quindici milioni di persone.
Il desiderio di Pinheiro di essere messo a busta paga nel settore pubblico è solo un piccolo esempio di un problema al centro
dei guai economici e politici del Brasile: si tratta di una forma di semi-dipendenza dallo stato che caratterizza le imprese
e la società e che ha lasciato il governo impossibilitato a fare poco più che pagare le proprie spese di gestione.
Queste elezioni sono le più dibattute, contestate e controverse da quando, nel 1989, sono state ripristinate le consultazioni
dirette. L'ex presidente Luiz Inácio Lula da Silva (che godeva dei favori del pronistico), è in galera ed è stato estromesso
dalla partecipazione al voto, mentre l'altro candidato favorito, Jair Bolsonaro, è stato accoltellato circa un mese fa.
“Il sistema pensionistico pubblico è iniquo. Il governo spende per le pensioni più di un terzo del gettito fiscale e di quel terzo il 53% va al 20% più benestante della popolazione in base al reddito”
Rozane Siqueira, professoressa di economia alla Federal University di Pernambuco
A prescindere da chi vincerà, in ogni caso il nuovo presidente dovrà occuparsi di risolvere due crisi strettamente collegate
tra loro che, quasi di sicuro, ne caratterizzeranno l'intero mandato. Il primo è il problema del debito e dei deficit in forte
espansione.
Il governo ha un deficit di budget pari al 7 per cento del prodotto interno lordo, anche se è alle prese con un programma
di austerità. Ciò significa che, se la nuova amministrazione non prenderà subito provvedimenti per tenere a freno la spesa,
il Brasile rischierà di precipitare in un'altra crisi. Gli attuali travagli dell'Argentina dovrebbero servire da monito per
capire con quanta rapidità i mercati possono rivoltarsi contro i paesi non appena le loro politiche iniziano a sembrare insostenibili.
Il secondo dilemma è quello delle priorità scellerate che dominano la spesa pubblica in Brasile e di come i gruppi di pressione,
come i sindacati dei lavoratori del settore pubblico, si siano accaparrati buona parte del budget.
Il governo oggi deve spendere una percentuale enorme delle sue entrate per stipendi e pensioni, al punto che sta perdendo
la capacità di investire in aree come l'assistenza sanitaria e le infrastrutture, o addirittura di occuparsi della manutenzione
di alcuni dei suoi musei più importanti.
La spesa pubblica in Brasile è «assolutamente irrazionale», dice Rozane Siqueira, professoressa di economia alla Federal University di Pernambuco e co-autrice
di un recente rapporto del ministero delle finanze sul trasferimento di reddito. Siqueira descrive infatti il governo come
una forma di «Robin Hood al incontrario», dato che la maggior parte di quella che si definisce spesa sociale va a beneficio
della classe medio-alta. La crisi dello stato brasiliano non è determinata da risorse insufficienti. Il prelievo fiscale in
Brasile è pari a circa il 32 per cento del Pil, molto più di altre economie emergenti, ma pur sempre in linea con la media
del 34 per cento dei paesi sviluppati dell'Ocse, l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico.
Siqueira dice che la spesa pubblica per il trasferimento di reddito, attraverso pensioni e altri schemi welfare, al 23 per
cento del Pil, è anch'essa in linea con la media dei paesi dell'Ocse. I risultati, tuttavia, sono tragicamente diversi. Nel
Regno Unito, fa notare Siqueira, i sussidi del welfare costituiscono fino al 92 per cento delle entrate del 10 per cento più
povero della popolazione e il 2 per cento di quelle del 10 per cento più ricco della popolazione. In Brasile, invece, i sussidi
costituiscono appena il 31 per cento delle entrate del 10 per cento più povero della popolazione e il 23 per cento di quelle
dei più ricchi.
L'esempio più vistoso di questa differenza è il sistema pensionistico pubblico. Siqueira dice che il governo spende per le
pensioni più di un terzo del gettito fiscale, e di quel terzo il 53 per cento va al 20 per cento più benestante della popolazione
in base al reddito, mentre appena il 2,5 per cento va al 20 per cento più indigente della popolazione.
Il settore pubblico è particolarmente iniquo. Nel 2017, la pensione media per i giudici in pensione era di 18.065 real brasiliani
(circa 4380 dollari) al mese: molti, però, hanno percepito il triplo di tale somma. Le pensioni medie nel ramo legislativo,
invece erano di 26.823 real brasiliani al mese. Spesso i funzionari civili vanno in pensione – a stipendio pieno o più – poco
dopo aver compiuto i cinquant'anni.
Perché i poveri non scendono in piazza a protestare e a lanciare pietre? «Mi pongo spesso questa domanda, si tratta di una
situazione davvero sconvolgente» dice Siqueira.
L'esigenza di riformare l'insostenibile sistema pensionistico brasiliano è rimasta al primo posto dell'agenda politica del
paese per un quarto di secolo.
Marcos Lisboa, ex segretario della politica economica a Brasilia e ora capo dell'Insper business school di San Paolo, dice
che se nelle economie emergenti gli addetti ai lavori spesso ostacolano il cambiamento, il Brasile si differenzia da altri
paesi per il prevalere di interessi acquisiti, diffusi in tutta la società, che frena le riforme.
«La gente non ha la più pallida idea di quanto siano grandi e forti i gruppi di pressione brasiliani che hanno interessi particolari»
dice. Il sistema pensionistico del settore pubblico è solo un esempio del genere di trattamento particolare che gli addetti
ai lavori sono riusciti a garantirsi col passare del tempo. Anche nel mondo del business si è arrivati più o meno a questo
status quo.
Jorge Rachid, capo dell'agenzia federale delle entrate, dice che il suo ufficio l'anno scorso ha ricevuto oltre mille richieste
da privati cittadini e aziende per ottenere uno sgravio fiscale, oltre a un numero incalcolabile di domande simili presentate
nei 27 stati brasiliani e in più di cinquemila comuni. «Alcune proposte di sconti fiscali non hanno proprio ragion d'essere,
ma dobbiamo prenderle tutte in considerazione» dice.
Se molte di queste domande sono respinte, altrettante sono approvate. Tra il 2005 e il 2015 la percentuale delle entrate fiscali
federali restituite in sgravi fiscali è così salita dal 15 a oltre il 22,5 per cento. Quest'anno, stando alle stime dell'agenzia
delle entrate, si arriverà al 20 per cento, pari a circa 290 miliardi di real brasiliani.
I principali beneficiari di questi sgravi fiscali sono le piccole e medie imprese. Tra altri, vi sono Zona Franca de Manaus, un'area industriale tax-free nel pieno della foresta
amazzonica, e settori industriali scelti come “campioni nazionali”. Le grandi aziende, perfettamente in grado di prendere
capitali in prestito sui mercati globali, ricevono prestiti sovvenzionati dai contribuenti tramite BNDES, la banca nazionale
di stato per lo sviluppo economico e sociale, senza nessun guadagno evidente per gli investimenti o la produttività.
I sussidi vanno ben oltre il mondo degli affari. In base a un programma federale, circa 20 milioni di lavoratori a basso reddito
nel settore privato ricevono sovvenzioni alimentari o buoni pasto, e oltre 23mila nutrizionisti lavorano alle dipendenze dei
datori di lavoro per orientarne le scelte.
L'idea popolare che lo stato debba imporre la generosità è esemplificata dal meia entrada, l'obbligo imposto a sale cinematografiche,
società di calcio e promotori di eventi culturali e sportivi di offrire biglietti a metà prezzo a studenti, anziani e disabili.
«Hanno sempre tutti qualcosa da guadagnarci» dice Zeina Latif, economista presso XP Investimentos, una società di broker di
San Paolo. «A conti fatti, però, ci rimettono tutti quanti, perché l'economia cresce meno di quanto dovrebbe. Per alcuni settori,
tuttavia, il risultato finale è considerevole… e questo spiega perché in Brasile abbiamo una concentrazione così forte della
ricchezza».
Sérgio Lazzarini, esperto di capitalismo clientelare, dice che le imprese riescono a chiedere favori al governo per i costi
imposti dal suo operato, spesso imprevedibile, per esempio imponendo tagli alle tariffe dei servizi pubblici, in palese contraddizione
con i termini previsti dai contratti delle loro concessioni.
«Il governo interviene con forza e le imprese dicono: ‘Ok, se volete tagliare le nostre tariffe, dovete darci un prestito
agevolato'» dice.
Lazzarini descrive il sistema brasiliano come un sistema di “capitalismo relazionale” nel quale il mondo della politica e
le imprese sono strettamente collegati tramite la proprietà da parte del governo delle quote di maggioranza e minoranza delle
grandi aziende, sia direttamente sia indirettamente tramite la BNDES e i fondi pensionistici del settore pubblico, e il desiderio
delle aziende di garantirsi finanziamenti, contratti pubblici e altri benefit con modica spesa.
I rischi connessi a questi rapporti sono stati messi a nudo dalle indagini Lava Jato in corso sulla corruzione che coinvolge
politici e funzionari di Petrobras, la società petrolifera a controllo statale, la società di costruzioni e ingegneria Odebrecht,
e una marea di altre aziende.
Nel corso degli anni, sia i governi eletti democraticamente sia le giunte militari hanno concesso a piene mani questi interessi
particolari, ma le pressioni sul budget si sono acuite soprattutto durante i 13 anni – tra il 2003 e il 2016 – in cui la presidenza
è stata occupata dal partito di sinistra dei lavoratori.
Lisboa afferma che negli Stati Uniti e in Europa la differenza tra sinistra e destra è che la sinistra propende per l'uguaglianza
a spese di una crescita più lenta, mentre la destra è favorevole alla crescita a spese di una maggiore disuguaglianza.
«In Brasile il dibattito non è in questi termini» dice. «In Brasile e in America latina, essere di sinistra significa in primo
luogo essere contro l'imperialismo statunitense e in secondo luogo difendere gli interessi delle aziende locali, puntare a
un'economia chiusa… Ma dov'è la loro politica sociale? Dov'è la loro preoccupazione per l'istruzione delle masse?».
Nel 2003, Lisboa è stato segretario per le politiche economiche del governo di Lula da Silva e ha proposto di rivoluzionare
il sistema del welfare brasiliano per concentrarne i benefici sui poveri. «Quel documento è stato preso a colpi di mitra dalla
sinistra, specialmente la parte nella quale si proponeva di destinare i programmi sociali alle famiglie più vulnerabili» ricorda.
«Dissero di no. Dissero che i benefit dovevano essere universali. Ma come è possibile?».
I sostenitori di Lula da Silva dicono che i programmi sociali di quest'ultimo e le borse di studio per gli studenti universitari
sono diretti proprio ai più indigenti.
Finora, molte questioni complesse sono state semplicemente rinviate. Questa prassi, però, potrebbe aver fatto definitivamente
il suo corso. Secondo le stime ufficiali, la spesa pubblica obbligatoria già oggi utilizza più del 90 per cento dell'intero
budget federale e, se le cose non cambieranno, entro il prossimo decennio raggiungerà il 120 per cento.
Lisboa è del parere che le cifre reali siano già vicine al 100 per cento e che al prossimo governo non resterà altro da fare
che introdurre riforme rigorose. In caso contrario, «non avrà il potere di decidere nulla».
Per il momento, il Brasile è riuscito a scongiurare le agitazioni divampate e dilagate per buona parte di quest'anno in Argentina,
paese nel quale le sperequazioni esistenti da lungo tempo e i passi falsi di un governo dichiaratamente riformista sono stati
smascherati dal rafforzamento del dollaro americano e dall'irrigidimento della situazione monetaria globale.
Fino a poco tempo fa, i mercati davano per scontato che anche il Brasile avrebbe avuto un nuovo governo che avrebbe preso
i problemi fiscali sul serio. E avevano palesato addirittura un certo interesse nei confronti di Bolsonaro, ignorando la sua
ammirazione per le giunte dittatoriali militari brasiliane e le sue politiche corporativistiche.
Lo scivolone della valuta brasiliana degli ultimi tempi lascia chiaramente intuire che la fiducia degli investitori è sottosopra.
Se i milioni di brasiliani che sognano una vita facile nel servizio pubblico non eserciteranno pressioni a sufficienza per
ottenere il cambiamento, potranno essere i mercati a farlo al posto loro.
Traduzione di Anna Bissanti
© 2018, The Financial Times
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