Brexit non è più un confronto-scontro fra Unione europea e Regno Unito, forse non lo è mai stato, ma a due mesi dall’ultima data utile per chiudere un negoziato anche l’ultimo tentativo di rappresentare così il divorzio politico d’inizio secolo cade. In questa settimana in cui sono programmati due riunioni a Bruxelles e un vertice dei 27 leader a Salisburgo, si inscenerà - è stato efficacemente notato - una finta battaglia fra l’Unione e il Regno affinché la premier britannica Theresa May possa tornare in patria e chiudere un accordo con il suo partito.
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È il dilemma banalmente shakespeariano - rimanere o andare via - che decide il destino di Brexit e del Paese, non la presunta cocciutaggine degli europei, avverte l’Economist: Angela Merkel è disposta a concessioni purché si chiuda, solo i francesi impuntati contro un accordo troppo vago ma, dicono anonimi funzionari e diplomatici ai giornali britannici, l’Ue è disposta a trovare un compromesso pure sui confini irlandesi, il tema politico più spinoso su cui i Brexiters più duri potrebbero far saltare le trattative.
Alla fine, si potrebbe avere un accordo sul modello Norvegia più unione doganale. Il problema però, adesso, è un accordo a Londra.
Le prese di posizione a Bruxelles sono infatti innocue rispetto alle imboscate dei 50 parlamentari Tory che tramano per defenestrare il capo del partito, quindi del governo. Theresa May se ne è lamentata in un’intervista alla Bbc nel weekend e, anche se non ha perso la calma, ha rivelato un’inquietudine che lascia il tutto in sospeso. La signora May ha anche minacciato i ribelli facendo presente lo scenario disastroso delineato dal Fondo monetario internazionale in caso di uscita dall’Ue senza accordo.
La premier che ha legato il suo nome e la sua leadership all’addio all’Unione si ritrova ancora una volta nella paradossale situazione di dover lottare più in casa che fuori, ed è verosimile pensare che May vada incontro ai meeting europei - in particolare al vertice di Salisburgo, dove verrà presentato il piano Chequers - con cuor più leggero rispetto al congresso annuale del suo partito in programma dal 30 settembre al 3 ottobre a Birmingham. In quei quattro giorni si capirà se l’attuale leader dei conservatori ha i 320 voti che le servono alla House of Commons per far passare l’accordo.
Forse la misura del dramma che stanno vivendo i Tory è l’appoggio di Michael Gove, ex ministro dell’Ambiente, falco Brexit da sempre ostile all’attuale leadership, che dichiara di appoggiare il piano May (detto Chequers dal nome della residenza estiva del primo ministro in cui è stato stilato a luglio scorso) pur di lasciare l’Unione europea. Perché a questo punto, è l’implicita ammissione, neanche l’addio fissato il 29 marzo 2019 è scontato.
Le voci a favore di un secondo referendum continuano a levarsi, l’ultima quella del sindaco di Londra Sadiq Khan ma ancora non si intravede un largo fronte compatto a favore del Remain. La buona notizia per gli europeisti britannici è che il fronte del Leave sembra messo peggio.
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