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May sfida l’Ue, ma su Brexit la partita più difficile è in Parlamento

La premier Theresa May con l’ex ministro degli Esteri Boris Johnson
La premier Theresa May con l’ex ministro degli Esteri Boris Johnson

Il richiamo al rispetto rivolto da Theresa May ai leader Ue dopo il fallito vertice di Salisburgo, alza i toni del confronto, ma non cambia la strategia britannica. Se la signora premier supererà le forche che l’attendono al congresso Tory, il negoziato con l’Unione potrà riprendere con l’obiettivo di trovare un accordo formale nel mese di novembre. La Brexit, per Londra, dovrà poi marciare verso il suo naturale compimento con la separazione del Regno Unito dall’Ue in ossequio alla volontà popolare espressa nel referendum del 23 giugno 2016.
Nei due anni, circa, di transizione che scatteranno dal 29 marzo 2019 dovranno essere messi a punto i complessi e inesplorati “dettagli” sulle relazioni commerciali future lasciati in bianco dagli sherpa per evitare che le cosiddette technicalities possano divenire nuovi ostacoli. Ventiquattro mesi di purgatorio nel corso dei quali Londra rispetterà, sostanzialmente, le regole esistenti.

Il fronte internazionale: un’intesa difficile
Recita più o meno così la scaletta degli eventi che il governo britannico spera di poter portare a casa in questo rush finale di trattative con l’Unione.
L’esito negativo del vertice di Salisburgo, la puntuta reazione di Theresa May all’affondo di Emanuel Macron e Donald Tusk suggeriscono che le cose potrebbero andare molto diversamente. Tuttavia immaginiamo, per un istante, che gli eventi muovano nella direzione auspicata da Londra e che nelle prossime settimane arrivi l’accordo con Bruxelles grazie al nuovo rinculare del governo britannico di fronte alla fermezza dell’Ue, oppure grazie alle pressioni sui partner che Theresa May saprà esercitare, aprendo varchi nella struttura attuale del mercato interno. Le concessioni sull’irrisolta querelle irlandese e lo spacchettamento, seppure parziale, del mercato unico sono un azzardo che spianerebbe la via alle forze sovraniste nel resto dell’Ue, ma, tant’è, ipotizziamo che a novembre – in qualche modo – sia fumata bianca.

La sterlina troverà vigore fra le pieghe dell’accordo, i mercati manderanno in scena qualche fiammata al rialzo, l’incenso ammanterà i commenti sui due lati della Manica. E poi ? Credere che la partita della Brexit possa davvero concludersi con la monca, ancorché futuribile intesa fra Regno Unito e Unione europea, è un’illusione. La mano finale si giocherà in Parlamento e molti indizi suggeriscono – la conferma è uscita anche dalla conferenza anglo-italiana di Pontignano - che la battaglia di Westminster sarà assai più dolorosa di quella di Bruxelles.

Il fronte interno: falchi pronti all’ammutinamento
I brexiters duri e puri stanno perdendo un poco di smalto se è vero che più i sondaggi indicano dubbi popolari, più i deputati s’adeguano all’umore dei collegi elettorali. Non si può dire lo stesso per le ambizioni politiche di Boris Johnson, David Davis, Jacob Rees Mogg che, nonostante il trend apparente, tramano per far cadere Theresa May. Se la signora premier farà nuove concessioni rispetto al piano di Downing Street già bocciato dai brexiters, l’ammutinamento ci sarà. Sulla carta una cinquantina di deputati sono pronti a ribellarsi, squartando una maggioranza di governo che non supera i dieci.

Avrà successo, soprattutto, se al fianco dei bucanieri “indipendentisti” si dovessero schierare – per motivazioni opposte – i deputati eurofili, delusi, specularmente, da un’intesa che, comunque, indebolisce il regno rispetto al quadro di oggi. Londra, lo ricordiamo, come membro Ue, ma fuori dall’Eurozona, ha goduto, in questi anni, del “meglio di due mondi” come disse David Cameron prima di scomparire nell’oblio generato dal suo gesto primordiale, ovvero la scommessa del referendum sull’Ue. Un pugno di voti può affossare Theresa May e i suoi apprezzabili equilibrismi.

Il ruolo del Labour
Più che in quelle del Tory party, il destino dell’esecutivo e della Brexit è, però, nelle mani del Labour. Se il partito d’opposizione – come va promettendo - avrà la forza di restare unito nel “no” all’accordo siglato (se mai davvero lo sarà) da Downing Street è molto difficile credere nella ratifica ai Comuni. La spinta nel Labour cresce al ritmo delle Trade Unions, d’improvviso consapevoli che quando si scrive Brexit si legge impoverimento crescente per il fianco nord del Paese, il “Mezzogiorno” del Regno. I sindacati premono sul Labour, di cui sono tornati ad essere azionisti di riferimento, per un secondo referendum. Scenario quantomai possibile. Propedeutico a uno sviluppo del genere è il pollice verso di Westminster all’intesa euro-britannica, qualora fosse davvero trovata.

Theresa May, tuttavia, non è ancora condannata. Ad aiutarla più del suo partito è, ancora una volta, l’attempato signor Corbyn. Il leader del Labour infila una gaffe dopo l’altra, consolidando l’immagine di radicale d’antan, massimalista, equivoco sull’Europa, pronto anche a farsi oscurare dall’ombra, imbarazzante, dell’antisemitismo. Un leader che a molti – e non solo nei dintorni della City - fa paura. Se il “no” parlamentare alla Brexit porterà, prima ancora di un nuovo referendum, alla caduta del governo e a elezioni anticipate, Jeremy Corbyn, sarà il migliore alleato di Theresa May: il partito conservatore troverebbe la forza per riunirsi con l’ obiettivo di tenere il Labour lontano dal potere. E la Brexit dopo due anni di scontri si ridurrebbe a quello che è sempre stata: epifenomeno di un conflitto fra ambizioni troppo umane, straordinariamente sorde e cieche all’interesse nazionale.

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