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I TERMINI DI DIVORZIO

Brexit sì, no, forse: tutti gli scenari in vista del voto al Parlamento di Londra

L’accordo sulla Brexit con l’Europa c’è. Restano in bilico le scadenze più insidiose, in un rush finale che dovrebbe ultimarsi entro il marzo 2019. Il 25 novembre il Consiglio europeo ha dato il via libera all’intesa raggiunta da Theresa May con i negoziatori di Bruxelles per il divorzio fra Londra e la Ue. Il sì dei 27 era considerato poco più che una formalità, nonostante il rischio - rientrato - di un veto spagnolo sulla questione Gibilterra.

Ora arrivano gli ostacoli finali, a partire dal voto del Parlamento britannico entro la prima metà di dicembre: un punto di snodo che può determinare il futuro della Brexit e della premier Theresa May, incalzata da un’opposizione che cova fra le file del suo stesso partito. Proviamo a riepilogare ched cosa succederà a Westminster e gli scenari che si aprono dopo il parere della Camera. A favore o sfavore.

Come funziona il voto?Perché May rischia?
Il testo deve ottenere il consenso della Camera dei comuni, la camera bassa del Parlamento britannico. Il d-day è atteso entro la metà di dicembre, probabilmente il 12. Per il sì basta raggiungere una maggioranza semplice, pari a circa 320 parlamentari su un’assemblea di 630 eletti. L’ obiettivo è meno agevole di quello che sembra, per diverse ragioni. La maggioranza governativa è retta già di per sé su numeri abbastanza fragili, con uno scarto di soli cinque parlamentari rispetto all’opposizione: 327 in totale fra Conservatori (317) e Partito unionista irlandese (10), contro i 322 assemblati fra laburisti (262), partito nazionale scozzese (35), liberal democratici (12), Sinn Féin (gli indipendisti irlandesi, 7) e altre sigle minori.

Il malcontento per l’accordo formalizzato fra May e la Ue sta agitando una fronda interna sia ai conservatori che agli unionisti nordirlandesi, aumentando il rischio di bocciatura di un accordo avversato anche dall’opposizione laburista. La speranza di May è che le defezioni interne al partito siano bilanciate da qualche appoggio esterno, anche a sinistra, ma lo scenario è del tutto in bilico. La deputata conservatrice Sarah Wollaston ha dichiarato all’emittente statunitense Cnbc che non è «neppure remotamente possibile» che l’accordo superi indenne il voto della Camera bassa.

Che cosa succede se l’accordo passa?
Se l’accordo dovesse passare, la procedura si avvierebbe a un iter abbastanza lineare. Nel 2019 verrà presentato un testo per il ritiro del Regno Unito dalla Ue, da sottoporre al voto dell’Europarlamento entro marzo. Se l’assemblea dirà sì, la palla passerà al Consiglio europeo, ultima istituzione chiamata alla ratifica del patto. «Brexit» scatterebbe ufficialmente il 29 marzo 2019, avviandosi a un periodo di transizione fino a dicembre 2020. Un lasso di tempo utile per definire gli ultimi termini dell’accordo, ad esempio sulla questione di confini irlandesi, rapporti commerciali e libera circolazione delle persone.

...e se non passa?
È qui che lo scenario si fa più imprevedibile. Anzi, gli scenari, visto che la bocciatura del parlamento britannico spianerebbe la strada a una serie di opzioni molto diverse fra di loro. L’unica certezza è che May avrebbe a disposizione 21 giorni di tempo per comunicare le sue intenzioni con un annuncio ufficiale. Il resto è appeso alle evoluzioni interne al parlamento britannico e al suo rapporto con le istituzioni Ue. Fra gli sviluppi realistici ci sono 1) ulteriori negoziazioni di May o le sue dimissioni 2) un secondo referendum e 3) l’incognita di una Brexit no-deal, il salto nel buio di un divorzio dalla Ue senza la copertura di un accordo diplomatico.

Nel primo caso, May potrebbe tentare di riavviare un negoziato con i partner europei. Il tira e molla degli ultimi mesi ha abituato a qualsiasi colpo di scena, ma gli analisti tendono a escludere l’ennesima dilazione delle scadenze. Anche perché sono gli stessi leader Ue a considerare la pratica chiusa con il summit del 25 novembre, almeno dal punto di vista del loro potere istituzionale. In quel caso, o anche prima di allora, i parlamentari britannici potrebbero spingere per le dimissioni di May. L’ala più intransigente dei Tory ha già tentato di avviare una mozione di sfiducia interna al partito, senza raggiungere però le 48 lettere necessarie a mettere in moto la procedurta. Più facile trovare sponde dopo un flop clamoroso in parlamento.

Nella seconda ipotesi, si profilerebbe l’incubo dei Brexiteer radicali: un secondo referendum, la nemesi del voto di giugno 2016. In questo caso si tornerebbe - letteralmente - da capo, dando agli elettori la possibilità di esprimersi su un divorzio che ha rivelato le sue fragilità in due anni abbondanti di trattative. Non è così scontato, però, che la controparte europea dia il suo placet: la procedura è lunga e impegnativa, per una Ue già alle prese con la scadenza della legislatura a maggio 2019.

La terza e ultima opzione è quella che inquieta di più entrambe le parti in gioco: la Brexit no-deal, una Brexit senza accordi. Una prospettiva che troncherebbe di colpo tutti i legami diplomatici fra Londra e Bruxelles, sancendo la separazione senza il cuscinetto - temporaneo - del periodo di transizione. La conseguenza è che il Regno Unito diventerebbe improvvisamente un paese terzo rispetto al perimetro comunitario, escluso dalle regole concordate su commercio e libera circolazione. L’unica eredità dell’Europa sarebbe quella che fa infuriare gli euroscettici più rigidi, il cosiddetto backstop: l’accordo di mantenere un confine leggero fra Irlanda e Irlanda del Nord, custodendo la seconda sotto al cappello della disciplina Ue.

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