Brexit costa cara, molto più cara del previsto. La prospettiva è di un calo del 3,9% del Pil britannico entro il 2030, pari a un costo di 100 miliardi di sterline, oltre mille sterline a testa per ogni abitante del Regno Unito. Questo lo scenario delineato nel primo studio condotto dopo l’accordo raggiunto tra Londra e Bruxelles e approvato dai 27 Paesi membri dell’Unione Europea domenica scorsa.
Il rapporto presentato ieri su “Gli effetti economici dell’accordo su Brexit proposto dal Governo”, condotto dal National Institute of Economic and Social Research (Niesr), esamina l’impatto dei cambiamenti nei rapporti commerciali tra la Gran Bretagna, la Ue e altri Paesi dovuti all’intesa. «La nostra stima è che se l’accordo proposto su Brexit diventerà realtà, il Pil sul lungo termine subirà un calo del 4% rispetto a se la Gran Bretagna fosse rimasta nella Ue - afferma il rapporto -. Questo è equivalente a perdere l’intero contributo annuale del Galles o del settore finanziario a Londra».
Se la Gran Bretagna restasse a oltranza in un’unione doganale con la Ue o se il “backstop”, la polizza di assicurazione sul confine irlandese, venisse utilizzata, il danno sarebbe minore ma comunque consistente, con un calo del 2,8% del Pil o 70 miliardi di sterline. Se invece il Parlamento britannico respingesse l’accordo proposto dal Governo e la Gran Bretagna uscisse dalla Ue senza un’intesa, la cosiddetta opzione “no deal”, allora la contrazione del Pil sarebbe del 5,5% o 140 miliardi di sterline.
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La conclusione principale è che anche se l’accordo verrá approvato ci sarà una forte riduzione negli investimenti e negli scambi commerciali (-46%), soprattutto nel settore dei servizi, e questo avrà un impatto diretto sul tenore di vita dei cittadini britannici.
Continuerà anche a regnare l’incertezza sul tipo di rapporto futuro che Gran Bretagna e Ue avranno dopo la fine del periodo di transizione il 31 dicembre 2020. L’incertezza ha un impatto negativo misurabile: secondo gli ultimi studi l’esito del referendum del 2016 e i punti interrogativi sul futuro che ha sollevato hanno già pesato per il 2% del Pil.
Lo studio presentato ieri è stato commissionato e finanziato dal People’s Vote, la campagna a favore di un secondo referendum, ma condotto dagli economisti del Niesr, che è un centro di ricerca prestigioso e con impeccabili credenziali di indipendenza. Il Niesr ha sottolineato ieri che le stime sono necessariamente «incerte dato che non esiste un precedente storico di un Paese che lascia un grande blocco commerciale come la Ue».
Un secondo referendum su Brexit, che sembrava una chimera fino a poco fa, è adesso una possibilità realistica. Se l’accordo proposto dal Governo verrà respinto dal Parlamento, come sembra probabile, le opzioni sul tavolo sono un “no deal” osteggiato dalla maggioranza dei deputati, un ritorno al tavolo negoziale che la Ue ha ripetutamente escluso, elezioni anticipate che solo l’opposizione laburista vuole nella speranza di vincere, oppure un secondo referendum che potrebbe annullare Brexit.
La premier Theresa May ha poco più di due settimane per convincere i deputati di tutti i partiti a schierarsi a favore del suo accordo in un voto in Parlamento confermato per l’11 dicembre. Ieri la May ha lanciato il primo appello a Westminster, avvertendo dei rischi di «aprire la porta a più divisioni e più incertezza».
I deputati devono fare quindi una scelta importante tra «sostenere questo accordo oppure respingerlo e tornare al punto di partenza», ha detto la premier, che ha anche dichiarato che le previsioni economiche sono «inaffidabili».
Allo stato attuale i numeri sono contro di lei: Laburisti, LibDem, Nazionalisti Scozzesi e Unionisti dell’Irlanda del Nord hanno dichiarato che voteranno contro, così come numerosi “ribelli” conservatori. La May deve quindi convincere non solo i deputati Tory ma anche quelli di altri partiti per avere la maggioranza necessaria.
La sua strategia prevede anche un appello diretto ai cittadini nella speranza che facciano pressioni sui deputati incerti per chiudere la partita. Nei prossimi giorni la premier viaggerà in lungo e in largo, dalla Scozia al Galles e dall’Inghilterra all’Irlanda del Nord, per convincere “l’uomo della strada” che l’accordo da lei negoziato è l’unica soluzione possibile.
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