Non è chiaro dove arriveranno i gilet gialli, la protesta anti-tasse che ha messo a ferro e fuoco Parigi per tre settimane di fila. Nell’attesa, però, hanno già centrato un risultato imprevedibile: trasformare il presidente dell’Eliseo, Emmanuel Macron, in un appiglio per le forze populiste che osteggiano l’establishment Ue e «l’Europa dell’austerity». Un boomerang sulla figura che aveva avversato più esplicitamente l’asse della destra nazionalista su scala comunitaria.
Il motivo? La controfferta di Macron ai gilet gialli, un pacchetto che va dal rialzo di 100 euro dei salari allo stop ai prelievi pensionistici, rischia di gonfiare il deficit
francese a circa il 3,4% del Pil: lo 0,4% in più rispetto alla temuta soglia del 3%, fissata dai parametri di Maastricht.
La sola ipotesi di uno strappo francese, tra l’altro retto su basi ben diverse da quelle italiane, è bastata a scatenare un gioco di comparazioni: se Parigi viene meno ai parametri, non si può esigere rigore dal resto
d’Europa.
Un argomento sposato soprattutto dal governo italiano, alle prese con un tira e molla sulla legge di bilancio che si è giocato
per mesi sul suo tentativo di far passare un deficit al 2,48% (ora ridotto dello 0,44% al 2,04%). Marine Le Pen, leader del
Rassemblement national, il vecchio Front National, aveva già spianato la strada accusando i governi francesi di «sforare
da anni il 3%». Ora il suo assist al governo Lega-Salvini si rinforza con uno scenario politico reale, sia pure “decentrato”
rispetto al cuore del problema.
Il tabù infranto di Maastricht
«Ormai esistono diverse forme di populismo in tutta Europa - spiega Manuela Caiani, professore associato alla sede di Firenze
della Scuola normale superiore - Quello che caratterizza i populismi del sud Europa, di destra e sinistra, è soprattutto
la causa economica: la rigidità dei parametri europei, i vincoli su deficit e debito e via dicendo». Lo strappo di Macron
sul deficit, quindi, finisce per «offrire il fianco» a chi ha costruito parte del suo consenso politico sull’ostilità a paletti
del bilancio comunitario. A maggior ragione se si considera il ruolo rivestito, anche simbolicamente, dalla figura politica
di Macron: europeista di ferro e co-leader in quell’asse fra Francia e Germania che viene considerata come la cabina di regia
dell’odiato establishment europeo. L’eventuale infrazione del 3% equivale alla rottura di un tabù identificato proprio con
Parigi e Berlino, considerati come i due governi più vicini - anche geograficamente - a Bruxelles.
Caiani teme anche una sorta di effetto-domino sulle proposte di politica economica degli altri partner europei: «Se Macron sfora il 3%, diventerà difficile mantenere l’immagine di “simbolo dell’Europa” che si era creato - nota Caiani - E allora anche altri potranno forzare i conti». Non bisogna dimenticare, poi, che l’origine del dietrofront di Macron sono le proteste dei gilet gialli contro la politica fiscale dell’esecutivo francese. Il movimento ha incassato il sostegno esterno di forze populiste di destra (Rassemblement national, Lega), sinistra (la La France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon) o entrambi (i Cinque stelle, ancora oggi difficili da catalogare su una sponda o l’altra dell’arco parlamentare) . La loro vittoria equivale a una resa dell’establishment - o, appunto, a un avvicinamento di Macron verso le cause dei cosiddetti populisti. «In fondo, se parliamo di stile comunicativo, anche Macron è populista: si è fatto eleggere con annunci su rinnovamento, ’rottamazione’ della classe politica - dice Caiani - E ora paga le sue contraddizioni».
Non tutti i populismi sono uguali
La retromarcia di Macron non basta, comunque, a cucire gli strappi preesistenti alle varie forze populiste e sovraniste europee.
La battaglia dei gilet gialli potrebbe incrinare l’aderenza della Francia alle regole europee , ma i parametri di Maastricht
non sono un bersaglio unico (o universale) per le sigle populiste. La forzatura dei vincoli di bilancio è una battaglia sostenuta
dai partiti in arrivo da Europa meridionale e occidentale, dalla già citata Le Pen alla Lega di Salvini, passando per l’insofferenza
all’Europa «ordoliberista» di alcune sigle della sinistra radicale. Viceversa, le sigle di destra in arrivo dai blocchi dell’Europa
del Nord, centrale e orientale non offrono grandi margini di dialogo quando si tratta di bilancio europeo. Viktor Orban, primo
ministro ungherese e leader del partito nazional-conservatore Fidesz, è stato fra i primi a bacchettare Salvini per le sue
liti con Bruxelles, in buona compagnia dell’ultradestra tedesca di Alternative für Deutschland. Il tassello mancante, oltre
all’affinità su alcuni temi, è un leader che faccia da raccordo fra pulsioni diverse. «In genere i movimenti populisti hanno
un leader nazionale, che ne interpreta i sentimenti - dice Paul-Jasper Dittrich, ricercatore al Jacques Delors Institut di
Berlino - Difficile che ne trovino uno generale, anche perché gli interessi sono diversi fra loro».
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