La pessima chiusura del 2018, che ha visto l’indice Hang Seng arretrare del 14%, allunga la propria ombra sul 2019, iniziato con il peggior debutto dal 1995: nella prima seduta del nuovo anno, ieri la Borsa di Hong Kong ha lasciato sul terreno un altro 2,8%. Per lo Shanghai Composite Index la perdita si è attestata all’1,2%.
I listini hanno reagito all’ennesimo sintomo di malessere dell’economia cinese, che quest’anno è prevista in crescita del 6,2%, secondo le stime della Banca mondiale, contro il 6,5% atteso per il 2018 dal Governo di Pechino e il 6,9 messo a segno nel 2017. Le preoccupazioni per la Cina sono state condivise anche dalle borse europee, e da Wall Street, ma soltanto per la prima parte degli scambi; in seguito gli indici hanno ridimensionato le perdite, per Piazza Affari arrivate al 2%. E in serata il Dow Jones ha chiuso in positivo, con il comparto energetico e quello bancario ad avere la meglio rispetto al fronte asiatico.
Dove, questa volta, a portare cattive notizie era stato il Caixin-Markit Manufacturing Purchasing Managers Index (Pmi) di dicembre, rilasciato ieri mattina: l’indicatore, che misura soprattutto l’attività delle aziende del settore privato,segna una flessione a 49,7 punti dai 50,2 di novembre. Per la prima volta dal maggio del 2017, il dato sfonda la soglia dei 50 punti, sotto la quale l’attività economica è considerata in contrazione.
La rilevazione è in linea con il Pmi “ufficiale”, diffuso lunedì, che misura in particolare l’attività delle aziende di Stato e che a sua volta registra la contrazione del settore manifatturiero della seconda economia del mondo, con una flessione a 49,4 punti (contro 50 del mese precedente): in questo caso, era dal luglio del 2016 che non si registrava una lettura sotto lo spartiacque dei 50 punti.
Hanno pesato, e continueranno a farlo nel 2019, la debolezza degli ordini sul mercato interno e internazionale. In questo caso, il calo complessivo dei nuovi ordini è il primo in due anni e mezzo e arriva malgrado i tagli dei listini dei prezzi di vendita praticato dalle aziende per sostenere i volumi. La riduzione degli ordini all’export, invece, è ormai una costante ed è il nono consecutivo. Le tensioni commerciali con gli Stati Uniti si fanno sentire e a poco sembra servire la fragile tregua raggiunta di recente da Donald Trump e Xi Jinping, che pure è servita a rimandare di 90 giorni i nuovi dazi decisi da Washington per il 1° gennaio su 200 miliardi di dollari di beni importati dalla Cina.
E le aziende continuano a ridurre i livelli occupazionali: il taglio di posti di lavoro nel settore ha ormai raggiunto una striscia ininterrotta di 62 mesi.
Secondo dati diffusi la scorsa settimana, i profitti delle società industriali a novembre sono diminuiti per la prima volta in tre anni. Nello stesso mese, le vendite al dettaglio sono aumentate al ritmo più lento da 15 anni.
Diversi economisti,come Iris Pang di Ing, si aspettano a questo punto che il Governo acceleri sulle misure di sostegno per l’economia, dopo quelle avviate in estate e dopo gli annunci dello scorso mese, che prospettavano nuovi tagli delle tasse e investimenti in infrastrutture. Proprio ieri è arrivato il via libera su otto progetti di collegamento ferroviario, per un valore di 33,8 miliardi di dollari.
Accanto alle misure allo studio del Governo ci sono gli interventi della Banca centrale, che continua a fornire liquidità a medio e breve termine al sistema finanziario.
Nel suo discorso di fine anno, il presidente Xi ha assicurato che il Governo farà in modo da evitare un rallentamento troppo brusco della crescita: l’anno appena iniziato è il 70° dalla nascita della Repubblica popolare cinese.
© Riproduzione riservata