Uno fra i nodi irrisolti della Brexit è rappresentato dai confini irlandesi, i 499 chilometri che dividono lo spicchio settentrionale dell'Isola fra Repubblica d'Irlanda e Irlanda del Nord. L'argomento è tra le controversie che hanno affossato l'accordo siglato da Theresa May con i partner europei, stroncato dalla Camera dei comuni con uno scarto di oltre 200 voti. Fronde interne ai Tory (il partito conservatore) e al Democratic Unionist Party (il partito di destra nordirlandese che fa da stampella al governo May) non hanno mai digerito la soluzione concordata dalla premier con i leader Ue: il cosiddetto backstop, un accordo per garantire che non vengano eretto un confine fisico fra Irlanda e Irlanda del Nord.
Perché il tema è così delicato?
Dopo la Brexit, il confine irlandese si trasformerebbe nell'unica frontiera di terra fra la Gran Bretagna (che include l'Irlanda
del Nord) e l'Unione europea (che include l'Irlanda, entrata nell’allora Comunità Europea). Oggi il confine tra i due è invisibile,
aperto alla circolazione reciproca di merci e cittadini. Il problema di come valorizzarlo non è mai emerso finché la Gran
Bretagna è rimasta all'interno della Ue insieme all'Irlanda. Diventa cruciale ora, visto che Irlanda e Irlanda del Nord si
troverebbe improvvisamente soggette a regole doganali diverse: la prima nel mercato unico europeo, la seconda nello spazio
autonomo che si vorrebbe ritagliare Londra.
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Nessuno vuole ripristinare i confini, perché un irrigidimento delle frontiere si ripercuoterebbe sull'interscambio interno (dal valore di circa 3 miliardi di euro nel 2016) e risveglierebbe vecchie tensioni politiche, in teoria pacificate dalla fine degli anni ‘90. Da qui la scelta di tamponare il problema con la “polizza” del backstop.
Ma cosa vuol dire?E come si manifesta?
Il termine backstop, preso in prestito dal baseball, indica la rete di protezione dispiegata alle spalle del ricevitore: si
allude a una soluzione di emergenza per tenere la «palla nel campo» ed evitare che vada a sbattere, figurativamente, sulla
faccia degli spettatori. Nel contesto della Brexit, è il compromesso sui confini irlandesi raggiunto da Theresa May nel patto
siglato con i partner europei a novembre 2018. La clausola assicura che non sarà imbastito alcun «hard border» (confine fisico)
fra Irlanda e Irlanda del Nord qualora Regno Unito e Ue falliscano nel trovare una partnership commerciale sul lungo periodo.
Il Regno Unito dovrebbe restare allineato all'unione doganale, cioè rispettarne i principi di base; l'Irlanda del Nord rientrerebbe
in pieno nell'unione doganale e dovrebbe, in aggiunta, rispettare alcune norme del mercato unico europeo. In teoria, il divorzio
fra Londra e la Ue dovrebbe scattare il 29 marzo 2019, con un periodo di transizione per metabolizzare i vari accordi in scadenza
al 31 dicembre 2020. Il backstop potrebbe servire solo dopo quella data, in assenza di un accordo bilaterale che lo renda
superfluo. «Ma gli accordi richiedono anni, non mesi – dice al Sole 24 Ore Matteo Villa, ricercatore Ispi – Quindi è probabile che rimanga il backstop. L'accordo peggiore, ma l'unico possibile».
Perché è criticato?
L'accordo di backstop ha suscitato le ire sia dei cosiddetti Hard Breexiter, i difensori più strenui di una Brexit dura e
pura, sia degli unionisti nordirlandesi. I primi ritengono che la permanenza nell'unione doganale sia la negazione stessa della Brexit, visto che obbligherebbe la Gran Bretagna a restare - di fatto - nel perimetro delle regole commerciali Ue. Una limitazione
che impedirebbe al paese di fissare una tariffa doganale autonoma, vanificando la retorica sulle «nuove politiche commerciali»
di un paese affrancato da Bruxelles. I secondi temono che il backstop sia il primo passo per isolare l'Irlanda del Nord dal
resto della Gren Bretagna, rompendo l'unità del Regno e “consegnando” Belfast alla Ue e all'Irlanda. In aggiunta il Regno
Unito non potrebbe recedere unilaterlmente dall'accordo: l'ennesima prova, a detta dei più critici, della «dipendenza da Bruxelles»
dell'Isola.
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