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Brexit, si spaccano i ribelli che hanno bocciato l’accordo di Theresa…

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Servizio |meno probabile un secondo referendum

Brexit, si spaccano i ribelli che hanno bocciato l’accordo di Theresa May

Come si può uscire dalla Brexit in stallo a due mesi dalla data ufficiale del ritiro del Regno Unito dalla Ue? Forse, capendo chi sono e quanto sono forti gli oppositori di Theresa May e dell’accordo che la premier ha negoziato con la Ue. Accordo che il Parlamento britannico ha clamorosamente bocciato il 15 gennaio scorso.

Il nuovo tormento si chiama rinvio: anche se breve, i brexiteers più duri lo temono. Jacob Rees-Mogg, capo dei conservatori critici con la May e e nemico giurato dell’accordo che ha contribuito ad affossare assieme ai Tory di cui è portavoce, circoscrive ora le sue obiezioni al backstop, cioè il regime transitorio tra le due Irlande, concordato con la Ue, che assicura uno status quo, evita steccati sull’isola, di fatto lascia a tempo indefinito il Regno Unito in quella unione doganale da cui i brexiteers vogliono staccarsi per sempre, in modo netto, il prima possibile. Non è un’apertura alla signora May ma una posizione più morbida, ora almeno Rees-Mogg non rinfaccia più l’astronomica cifra del divorzio, 39 miliardi di sterline.

Cosa più importante, le truppe conservatrici che hanno battuto May il 15 gennaio si sono spaccate in due sottogruppi: Tory che hanno sensatamente paura del «no deal» e quindi accettano un «rinvio» e le garanzie della May e della Ue su un backstop come misura solo eventuale e comunque temporanea (fra loro Liam Fox, ministro del commercio e figura chiave della Brexit). E Tory guidati da Rees-Mogg che hanno paura dell’emendamento trasversale che accomuna più partiti (il Labour è d’accordo) e verrà presentato alla Camera dei Comuni. Emendamento che prevede un rinvio della Brexit se il Parlamento non approverà un nuovo accordo entro il 26 febbraio, un mese prima della data ufficiale del 29 marzo. Rinvio che Rees-Mogg vuole scongiurare.

Il paradosso è che May la vede come Rees-Mogg e dice che un possibile rinvio non cambia i termini della questione ovvero: «No deal (niente accordo), deal (accordo), no Brexit (niente Brexit)». Ma in sostanza la premier ha poco altro per opporsi al Parlamento, il suo piano B non differisce molto dal piano A, quello che May sta facendo adesso è chiedere più garanzie possibili alla Ue in modo da strappare all’opposizione più deputati conservatori possibile.

Il rinvio di Brexit è la possibilità che circola in questi giorni e ha fatto balzare la sterlina a 1,30 sul dollaro e benché i leader sindacali siano a favore di postporre di tre mesi l’uscita, questa non è, dicono gli economisti e anche il presidente Bce Mario Draghi da Francoforte, la soluzione migliore né per l’economia britannica che si gioverebbe più dell’accordo negoziato da May con la Ue né per la crescita dell’eurozona.

È stata intanto ritirata la mozione per un secondo referendum sostenuta dai laburisti Chuka Umunna e Luciana Berger, esponenti dell’ala anti-Corbyn del Labour e da qualche deputato Tory pro Remain come Sarah Wollaston. La mozione non avrebbe avuto i voti, a sostegno di un secondo voto vi sono solo 100 deputati su 650, la maggioranza appare davvero lontana anche con un appoggio di Corbyn che finora è stato negato.

A Bruxelles il capo negoziatore Ue Michel Barnier continua a fare il cane da guardia dell’accordo e degli interessi comunitari: non solo esclude la riapertura dei negoziati ma indirettamente minaccia i deputati britannici: «dire di non volere un “no deal” non vuol dire bloccare il “no deal”. Per bloccare un “no deal” bisogna che emerga una maggioranza favorevole», dichiara Barnier. Le buone intenzioni insomma non bastano, bisogna decidere, e se il Regno Unito chiedesse un’estensione dei negoziati non è detto che i 27 leader Ue non opporrebbero dure obiezioni.

In verità, nessuno vuole la hard Brexit, neanche l’Unione europea, dice oggi il cancelliere austriaco Sebastian Kurz da Davos: il Regno Unito sa che la Ue preferisce rimandare la data dell’uscita ora fissata il 29 marzo - precisa il cancelliere che ha da poco concluso il semestre di presidenza europea e a cui è stato riconosciuto di aver garantito un’unità di azione dei 27 Paesi - ma non si dovrebbe comunque andare oltre le elezioni europee del 26 maggio.

Brexit: Corbyn sfida May

Nel frattempo continua la grande fuga da Londra, cinque delle più grandi banche continentali stanno per trasferire asset per 750 miliardi a Francoforte, il ceo di Airbus definisce i negoziati Brexit «una disgrazia», la Land Rover fa sapere che ad aprile fermerà la produzione per una settimana per le possibili devastanti conseguenze di una Brexit disordinata, Ford quantifica in 800 milioni di dollari la perdita in caso di “no deal”. E via così a ingrossare il già lungo elenco di tutte le aziende e i settori economici che vedono nel risultato del referendum di due anni fa una sciagura dalla lunga scia.

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