Il primo a tornare, nel lontano 1996, era stato Evghenij Primakov, all’epoca ministro degli Esteri di Boris Eltsin. Cuba, Messico, Venezuela: il Cremlino puntava a ricostituire una presenza in America Latina sulla base di accordi commerciali che partivano però - allora come oggi - da considerazioni politiche, più che economiche. Come scriveva Stratfor, piattaforma geopolitica vicina all’intelligence Usa, le frequenti visite di alti funzionari russi in Sud America erano motivate «dall’aspirazione russa a creare problemi nel cortile di casa degli Stati Uniti». Aspirazione che si è rafforzata, man mano che i rapporti Mosca-Washington si facevano sempre più tesi.
Nel novembre 2008 l’allora presidente Dmitrij Medvedev fece un giro tra le navi da guerra russe arrivate a Caracas per esercitazioni con la Marina venezuelana. Tra queste l’incrociatore Pietro il Grande:risposta russa alle navi da guerra Usa entrate nel Mar Nero per consegnare aiuti alla Georgia, uscita dalla guerra di agosto con Mosca. «Come si sentirebbero a Washington - chiedeva Medvedev - se mandassimo aiuti nel Caraibi?».
Contratti per la fornitura di armamenti, missioni commerciali,un rapporto sempre più stretto con Hugo Chavez: presto la Russia si rese conto che faticava a farsi pagare da Caracas. Gli acquisti divennero prestiti: crediti per l’acquisto di armi russe, anticipi sulle forniture di petrolio venezuelano. Un investimento sfortunato? Poiché le motivazioni erano politiche, e il tornaconto economico secondario, Mosca restò. Anche dopo la morte di Chavez nel 2013, e con l’avvento di Nicolas Maduro. L’anno successivo la crisi ucraina segnò l’avvento dell’era delle sanzioni americane ed europee che hanno ridotto il campo d’azione russo, in particolare nell’energia: per compensare, il Venezuela diventava sempre più importante, anche se sempre più in difficoltà a rispettare gli invii di petrolio, man mano che l’economia nazionale si deteriorava.
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Ora, in attesa dell’esito della sfida di Juan Guaidò a Maduro, le sanzioni americane sugli assets energetici del Venezuela sono tornate a inseguire i russi che dal 2006 all’anno scorso, tra prestiti e linee di credito, hanno scommesso su Caracas 17 miliardi di dollari, solo in parte rientrati. E in buona parte investiti da Rosneft, il colosso russo del petrolio controllato dallo Stato e da Igor Sechin. Di Leningrado, interprete militare di spagnolo in Angola ai tempi della gioventù e dell’Urss, Sechin divenne segretario di Putin quando l’attuale presidente era vicesindaco della città. E poi lo seguì ovunque, al governo o al Cremlino, prendendo in mano l’industria russa dell’energia.
Il Venezuela coinvolse Sechin e la sua Rosneft sempre di più. Mettere in dubbio l’opportunità di un investimento simile non è consigliabile: quando lo fece nel 2017 un rapporto di Sberbank, la banca si affrettò a ritrattare, e l’autore dell’analisi restò senza lavoro. Ma ora è chiaro che Mosca teme di veder replicare in Venezuela ciò che avvenne in Iraq, o in Libia: progetti perduti o faticosamente rinegoziati in seguito a cambi di regime scaturiti da un intervento occidentale. Si calcola che il governo venezuelano (attuale) dovesse ancora allo Stato russo e a Rosneft 3 miliardi di dollari a testa, a fine 2018,la cifra comunicata dalla compagnia russa è 2,3 miliardi. Soldi cui si aggiungono le partecipazioni in 5 progetti petroliferi onshore di Pdvsa, la compagnia di Stato venezuelana, e l’impegno ad avviare due progetti offshore nel gas.
Ma per Rosneft il nodo più complesso è senza dubbio Citgo, unità di raffinazione di Pdvsa negli Stati Uniti finita nel limbo delle nuove sanzioni. Nel 2016, con gran fastidio del Congresso Usa, Rosneft ne aveva assunto il 49,9% come collaterale per garantire un prestito da 1,5 miliardi a Pdvsa. Un asset a due facce per i russi: scomodo, perché sotto la spada di Damocle delle sanzioni; utile perché dà comunque a Rosneft una voce in capitolo.
Un eventuale nuovo governo Guaidò - che, secondo il Wall Street Journal, starebbe per annunciare un suo board per Citgo - ne terrebbe conto? In novembre l’agenzia Reuters raccontava dell’ennesimo viaggio di Sechin in città. E di un incontro in cui il capo di Rosneft avrebbe rimproverato Maduro: grafici alla mano, gli contestava i mancati rimborsi alla Russia dopo aver scoperto che invece i creditori cinesi (cui è dovuto ben di più, 70 miliardi) venivano pagati. «Non ce ne andremo mai», ha detto Sechin più di una volta. Potrà permettersi, lo zar russo del petrolio, di alzare così la voce nel Venezuela di domani?
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