«È l’ironia della storia. Ma non possiamo escludere che succederà». Il numero uno della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, ha commentato così l’ipotesi che prende sempre più quota fra Londra e Bruxelles: un rinvio di tre mesi della Brexit che obbligherebbe i cittadini britannici a votare i propri rappresentanti per le elezioni europee del 2019. Il paradosso è figlio dello stallo diplomatico che ha fatto incagliare la procedura di separazione fra Londra e il Continente. Il via ufficiale al divorzio diplomatico dovrebbe scattare il 29 marzo 2019, ma a poco più di un mese dal termine la premier Theresa May non è riuscita a far approvare al Parlamento il piano di uscita concordato già novembre 2018 con i partner europei. May sta «lavorando duramente» per ottenere qualche modifica al testo, con l’obiettivo di tornare a Londra e incassare la ratifica della Camera dei Comuni entro i termini stabiliti.
Ma la scadenza si avvicina e lo scetticismo aumenta, su entrambe le sponde della Manica. A Londra tre ministri del suo stesso governo hanno lanciato un appello per «ritardare l’uscita», evitando lo scenario di una Brexit no-deal, nel caso di un’ennesima bocciatura dell’accordo di May nei prossimi giorni. Anche a Bruxelles, come accennato sopra, i leader europei iniziano a considerare seriamente l’ipotesi di un’estensione dell’articolo 50: la procedura dei trattati Ue che disciplina il divorzio istituzionale fra uno stato membro e l’Unione europeo, attivata per la prima volta proprio con il - travagliato - caso del Regno Unito.
A che punto siamo arrivati con Brexit
Ricapitolando. May ha siglato il 25 novembre 2018 un accordo definitivo per l’uscita del Regno Unito dalla Ue con i partner
europei. Il testo deve essere raficato dal Parlamento britannico per diventare effettivo, sempre entro la scadenza del 29
marzo. Da allora, però, la premier non ha fatto che subire sconfitte e incrinare la tenuta del suo stesso esecutivo. L’impassa
che fatica a essere sbloccato riguarda soprattutto il futuro dei confini tra Irlanda e Irlanda del Nord, un argomento delicatissimo
gli equilibri politici britannici: il timore dei conservatori inglese e degli unionisti nordirlandesi, storico avamposto della
destra sull’Isola, è che la permanenza di Belfast nello spazio doganale europei sia il primo passo verso una frattura della
Gran Bretagna. La batosta più dolorosa è arrivata il 15 gennaio, quando il «deal» di May è stato affossato con 432 voti contrari
e appena 202 sì. La premier ha riottenuto la fiducia della Camera ed è tornata a negoziare a Bruxelles, salvo incappare in
un altro flop nel voto del 15 febbraio (perso, in compenso, con “soli” 303 voti contro e 258 a favore).
May continua a dividersi fra Londra e Bruxelles e conta di raggiungere un’intesa in tempi utili, ma la sua maggioranza è sempre più frammentata. Oltre ai vari cambi di guardia fra i suoi ministri, inclusi due dimissioni di fila di altrettanti titolari del dicastero Brexit (prima Davis Davis e poi Dominic Raab), la premier si scontra con la sfiducia del suo stesso partito. Solo la scorsa settimana, i conservatori hanno registrato l’addio alle proprie file di tre deputati a favore del remain e la lettera congiunta di altrettanti ministri (Amber Rudd, David Gauke and Greg Clark ) per spingere sul rinvio dell’accordo. Il quotidiano Guardian ha rivelato che tutti i principali esponenti del governo starebbero facendo pressing per una uscita di scena di May subito dopo la Brexit, bocciando il suo proposito di restare in sella fino al termine del periodo di transizione.
La beffa: il rinvio costringerebbe al voto per le europee
E qui si arriva a una beffa temuta, prima di tutto, dai sostenitori più accaniti della Brexit. Il rinvio di tre mesi del divorzio
fra Londra e la Ue obbligherebbe il Regno Unito a far eleggere il suo drappello di deputati in vista delle elezioni europee
del 23-26 maggio. L'ipotesi può sembrare paradossale, visto che si tratterebbe di una elezione a (brevissima) scadenza. Ma
finché il Regno Unito è formalmente membro della Ue, la negazione del voto ai suoi cittadini finisce per costituire una violazione
di diritto. A metterlo in chiaro è stata anche l'eurodeputata polacca Danuta Hübner, spiegando alla testata Politico che un
paese europeo deve sempre garantire l'accesso alle urne. In caso contrario si può arrivare a un ricorso davanti alla Corte
di giustizia europea, un inconveniente in più sulla via già accidentata del divorzio con la Ue. L'eccezione potrebbe essere
prevista solo con una revisione ad hoc dei trattati ma, a meno di tre mesi dal voto, «non c'è tempo» per addentrarsi nella
procedura. La stampa conservatrice britannica ha ribattezzato lo scenario di un voto europeo come «l'ultima follia» della
Brexit, alludendo soprattutto al dispendio di finanze pubbliche per un'elezione dal valore quasi simbolico. Ma forse è ottimista.
Le trattative sono in corso, e nessuno può sapere se il voto europeo sarà davvero l'ultimo capitolo dello strappo fra Londra
e Bruxelles.
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