L’attentato suicida del 14 febbraio (costato la vita a oltre 40 poliziotti indiani sulla strada tra Jammu e Srinagar) e l’escalation seguita rischiano di scoperchiare un vaso di Pandora dal quale sono già uscite quattro guerre, tre delle quali legate direttamente alla contesa sul Kashmir. Quando New Delhi e Islamabad dichiararono l’indipendenza dall’Impero britannico, nel 1947, il Kashmir era un principato a maggioranza musulmana (53% della popolazione) schiacciato tra i due Stati nemici e retto da un maharaja hindu, Hari Singh.
Questi avrebbe dovuto scegliere a quale delle due nazioni nascenti aderire, ma la sua indecisione finì per lasciare spazio a un tentativo di invasione da parte dei guerriglieri pathan, appoggiati dal Pakistan. La scintilla della prima guerra indo-pakistana, che portò alla spartizione del Kashmir lungo una «Linea di controllo» (come fu chiamata dopo la guerra del 1971), “sorvegliata” ancora oggi da 115 osservatori Onu della missione Unmogip, istituita nel 1949.
Nel tempo, il Kashmir, ultimo nodo irrisolto della «partition», è diventato ostaggio e innesco delle tensioni tra India e Pakistan, bandiera per gli opposti nazionalismi. Islamabad rivendica la propria sovranità su un territorio a maggioranza musulmana e nei fatti ha favorito il terrorismo irredentista di gruppi come Lashkar-e-Toiba e Jaish-e-Mohammed (Jem), l’Esercito di Maometto che ha rivendicato l’attentato del 14 febbraio. Dall’altra parte, New Delhi, che sente di aver già perso parte del proprio territorio al momento dell’indipendenza, non intende rinunciare ad altri pezzi, nemmeno concedendo autonomia ai kashmiri, che pure in una prima fase era parsa una opzione.
L’epicentro delle tensioni è nella valle del Kashmir, amministrata dall’India. Ormai da 30 anni, dalla rivolta armata sostenuta dal Pakistan nel 1989, la sua popolazione vive sotto un regime di sicurezza speciale che dà ampi poteri all’esercito e resta esposta al richiamo islamista, complice l’atteggiamento di New Delhi, che ne ha frustrato le richieste di autonomia. La valle resta così permeabile alle infiltrazioni dei gruppi terroristici come il Jem, che fanno base in Pakistan. Una di queste roccaforti, secondo New Delhi, sarebbe a Balakot, colpita martedì dal raid dell’aviazione indiana: la ritorsione promessa dal premier Narendra Modi dopo l’attentato del 14 febbraio.
Dal 1989, quasi 70mila persone sono state uccise in un conflitto latente, che nel 2002 ha portato le due potenze nucleari sull’orlo di una quinta guerra aperta (dopo le quattro già combattute nel 1947, 1965, 1971, 1999). Guerre a parte, fasi di tensione altissima si succedono a periodi di calma apparente. Nel 2016, uccisioni “mirate”, manifestazioni di piazza, attentati contro caserme indiane e ritorsioni in territorio pakistano hanno dato vita a una sorta di Intifada, scatenata dall’assassinio di un carismatico militante musulmano di 22 anni, Burhan Wani, popolarissimo tra i giovani connazionali grazie all’attivismo sui social network: la quinta generazione di kashmiri a protestare contro quella che denunciano come una occupazione illegittima. Nel 2010, scontri ancora più violenti causarono un centinaio di vittime. La tensione era salita alle stelle anche dopo gli attentati di Mumbai del 2008, organizzati, secondo New Delhi, da islamisti pakistani e kashmiri (in particolare dal gruppo Lashkar-e-Toiba).
La valle del Kashmir (7 milioni di abitanti per il 96% musulmani) fa parte dello Stato indiano Jammu e Kashmir (Jammu ha 5,3 milioni di abitanti, per il 62% hindu). Dello Stato fa parte anche, con notevole autonomia, il distretto di Ladakh (280mila abitanti, per il 46% musulmano e per il 40% buddhista). In seguito alle elezioni del 2014, al Governo c’è una coalizione formata dal Bjp, il partito del primo ministro indiano Narendra Mondi, e dal locale Partito democratico del popolo. Nella valle del Kashmir, dove ormai sono rimasti poche migliaia dei 300mila indiani che vi abitavano, il Bjp è praticamente inesistente (il Kashmir pakistano conta 3 milioni di abitanti).
La vicenda del Kashmir si inserisce nel quadro dei rapporti tra India e Pakistan, devastati dal trauma della partizione. Milioni di persone, da una parte e dall’altra, furono costretti a migrare: villaggi dati alle fiamme, imboscate a colonne di profughi che si incrociavano su direzione opposte verso un traguardo identico, sottrarsi a una ferocia che non risparmiò nessuno. Le stime dei morti variano da 500mila a un milione di persone. In pochi mesi, i musulmani in India scesero dal 30% del totale a meno del 10% (oggi sono attorno al 15%).
Un ruolo importante, nell’impedire che le tensioni tra India e Pakistan finissero fuori controllo, è stato spesso giocato dagli Stati Uniti. Durante la breve ma intensa guerra (non dichiarata) del Kargil nel 1999, l’allora presidente Bill Clinton si impegnò di persona per convincere Islamabad a ritirare le forze armate che si erano spinte in territorio indiano. Dopo l’attentato al Parlamento indiano nel 2001, che New Delhi attribisce a Lashkar-e-Taiba e a militanti pakistani, i due Paesi mobilitarono le truppe al confine. In quel caso toccò al segretario di Stato, Colin Powell, attivarsi per spingere Islamabad a prendere le distanze dai gruppi jihadisti e per convincere New Delhi alla cautela.
Gli eventi di questi giorni potrebbero richiedere un nuovo intervento della diplomazia statunitense. Ma Washington oggi ha meno influenza sul Pakistan di quanta ne aveva nel 2001. All’inizio dell’anno, l’Amministrazione Trump ha cancellato aiuti militari per 1,3 miliardi di dollari, accusando Islamabad di dare sostegno a gruppi terroristici.
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