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Brexit nel caos: un milione in piazza per il nuovo referendum

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GLI SCENARI DEL DIVORZIO

Brexit nel caos: un milione in piazza per il nuovo referendum

«Revoke, rethink, remain, rejoice»: revocare, ripensare, rimanere, rallegrarsi. Lo slogan, uno dei tanti immortalati via Twitter, riassume bene la manifestazione anti-Brexit che ha invaso le strade di Londra. Con numeri da record: fonti ufficiali parlano di un milione di partecipanti, cifra che sfonda il tetto di 700mila adesioni registrate in un corteo simile a ottobre 2018. Il corteo, che si è conluso di fronte al Parlamento, è nato per fare pressing sul governo in favore di un un secondo referendum sul divorzio dalla Ue.

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Gli organizzatori della «Marcia per il voto della gente (People march’s vote, ndr)» avevano previsto un successo simile, dopo che in settimana una petizione online contro la Brexit ha mandato il tilt il portale per la raccolta firma con più di quattro milioni di adesioni. . La manifestazione ha raggiunto il suo capolinea a Westminster, nella piazza di fronte al parlamento britannico, dove stanno prendendo parola una serie di figure politiche. Fra gli altri il vicesegretario dei laburisti Tom Watson (assente Jeremy Corbyn), il liberaldemocratico Vince Cable, il primo ministro scozzese Nicola Sturgeon e il sindaco di Londra Sadiq Khan. Suo uno degli affondi più bruschi alla premier May: «Non è rimasto più tempo per ulteriori negoziazioni - ha detto Khan - Il primo ministro ha sprecato le buone intenzioni dei nostri vicini di casa europei con il suo approccio caotico e confuso».

Fra gli endorsement pubblici ci sono quelli di diversi esponenti del mondo delle imprese e della finanza, incluso l’appello - come sempre - sopra le righe del magnate Richard Branson: «Siamo vicini al disastro - ha dichiarato in una lettera ufficiale - Ridiamo alla gente la possibilità di votare».

Il ritorno alle urne è tornata a essere un’opzione sul tavolo, sempre più confuso, delle trattative fra Londra e Bruxelles per l’uscita dell’Isola dal perimetro comunitario. L’ultima novità è che Theresa May potrebbe rinunciare a portare in aula per la terza volta il suo accordo, dopo le due bocciature incassate fra gennaio e marzo, nel caso manchi un «supporto adeguato» al suo piano. La scelta riaprirebbe la porta a qualsiasi ipotesi, dalle sue dimissioni allo scenario che resta più temuto: una Hard Brexit, una Brexit senza tutele diplomatiche, rinviata ora dal 29 marzo al termine - momentaneo - del 12 aprile.

A che punto siamo, come siamo arrivati fin qui
La maxi-mobilitazione di Londra arriva alla fine di due settimane convulse, anche rispetto agli standard di un’odissea diplomatica che si trascina da quasi tre anni. Proviamo a ricapitolare. Dopo aver bocciato due volte l’accordo tra Theresa May e la Ue (il 15 gennaio e il 12 marzo 2019, con uno scarto di 230 e 149 voti), la Camera dei Comuni britannica si è espressa contro l’ipotesi di un divorzio no-deal il 13 marzo e, il 14 marzo, a favore della richiesta di un’estensione dell’articolo 50 (il meccanismo, istituto dai Trattati sulla Unione europea, che disciplina l’uscita di uno stato membro). In altre parole, il parlamento britannico ha incaricato la premier di chiedere un rinvio del divorzio oltre la data originaria del 29 marzo 2019. Il 21 marzo, dopo una maratona negoziale, i leader Ue riuniti nel Consiglio europeo hanno dato il via libera a un rinvio con due possibilità: Brexit ordinata il 22 maggio in caso di approvazione dell’accordo May-Ue entro la prossima settimana (25-29 marzo); Brexit no-deal il 12 aprile in caso di mancata approvazione del suo accordo entro quella data.

Insomma: il tutto è appeso al parere della Camera sul testo di May, se non fosse che ora ci sono dubbi persino sullo svolgimento del voto. Lunedì 18 marzo, infatti, lo speaker della Camera John Bercow ha escluso a sorpresa la possibilità di una terza votazione sul deal, sostenendo che il governo non può ripresentare lo stesso testo senza «modifiche sostanziali» rispetto al passato. May, sottolineano i media britannici, potrebbe tranquillamente aggirare l’ostacolo, rivendicando come «modifiche sostanziali» le assicurazioni strappate a Jean-Claude Juncker nel loro ultimo round di negoziati a Strasburgo. A quanto abbiamo visto, però, la premier non sembra intenzionata a tornare alla Camera senza un «sostegno» che le eviti la terza umiliazione parlamentare nell’arco di meno tre mesi. Quindi cosa potrebbe succedere? Letterlamente, di tutto. Da un lato una fronda robusta di parlamentari, anche conservatori, insiste per le dimissioni di May. Dall’altro, a quanto scrive il Financial Times, i deputati dovrebbero presentare lunedì 25 marzo un emendamento (un atto parlamentare) per consentire alla Camera di prendere possesso dell’agenda sul voto della Brexit. In caso di successo, i parlamentari potrebbero portare in aula mercoledì 27 marzo una serie di «voti indicativi» per proporre soluzioni alternative: dal ritorno alle urne per le elezioni generali a, appunto, un secondo referendum per la Brexit.

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