New York - I verbali dell'ultimo vertice della Federal Reserve mettono in chiaro che gli esponenti della Banca centrale non vedono davvero ragioni per ulteriori rialzi dei tassi quest'anno. Ma neppure per dare ascolto agli “ordini” di Donald Trump, all'invasione della sua politica, rischiando di compromettere l'indipendenza di giudizio che considerano cruciale alla credibilita' e efficacia della loro azione: le prescrizioni che ha lasciato cadere nel vuoto sono quelle di procedere con rapidi tagli del costo del denaro, accanto a nuove misure di Quantitative easing.
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I governatori, nel dibattito che ha accompagnato la scorsa decisione del 19 e 20 marzo di mantenere fermo il costo del denaro
per il prevedibile futuro, hanno sottolineato che l'economia globale e' in frenata e minaccia di contagiare l'espansione statunitense.
Mentre l'inflazione, un cui rilancio potrebbe premere a favore di strette sui tassi, rimane sotto controllo. In altre parole:
“L'evoluzione dell'outlook economico e i rischi a questo outlook probabilmente richiederanno di lasciare invariati i tassi
per il resto dell'anno”, si legge ne sunto del dibattito appena rilasciato. Allo stesso tempo la Fed mette pero' in chiaro
di voler rimanere prudente su qualunque allentamento di politica monetaria: nessun taglio dei tassi, avverte, a meno di un
dimostrabile deterioramento economico. Ovviamente i governatori considereranno “i dati in arrivo e altri sviluppi” nel determinare
la necessita' di cambiamenti alla loro posizione.
Il grande nodo che pero' la Fed non ha potuto sciogliere davvero e' quello dell'assedio da parte della politica, quella di
Washington. Mai come oggi, almeno negli ultimi decenni, la sua conquistata imparzialita' al cospetto delle agende di partito
e della Casa Bianca e' parsa messa in dubbio. In gioco e' una politicizzazione estrema e esplicita della Fed se Trump l'avra'
vinta: se finora il Presidente aveva utilizzato anzitutto l'aggressivita' verbale per chiedere che si piegasse ai suoi voleri
(gonfiare l'economia subito mentre si avvicina la campagna per le prossime elezioni presidenziali) adesso ha fatto capire
che vuole passare all'azione. E che azione: i suoi attuali due candidati a entrare al board della Fed hanno i crismi dell'ideologia
e della fedelta' assoluta (a lui) prima che di qualunque qualifica. Quasi a immaginare una trasformazione dell'istituto centrale
in una riedizione della Corte Suprema, dove ormai dominano le fratture e Trump e' riuscito a insediare alti magistrati scelti
anzitutto per il loro dichiarato sostegno alla sua causa.
Stephen Moore e Herman Cain - il primo poco piu' di un commentatore schierato, il secondo un ex candidato alle primarie repubblicane
screditato da scandali - sono due nomi in lizza per il board della Fed invisi anche agli ambienti conservatori moderati. “Non
esattamente i miei preferiti”, mi ha confessato con malcelato sarcasmo un rispettato economista conservatore che preferisce,
su questioni politiche, l'anomimato. Dipendera' dal Senato a maggioranza repubblicana, che deve approvare le nomine, se un
cammino di svuotamento della credibilita' della Fed potra' procedere. Perplessita' in Parlamento sono emerse su Cain, meno
di Moore, che e' benvisto come un crociato da sempre per la drastica riduzione delle imposte.
Vale ricordare che l'autorita' e l'influenza del chairman della Fed, in questo caso Jerome Powell, e' vasta e che lui ha promesso
di non dimettersi o piegarsi agli assalti di Trump. Ne' sono nuove manipolazioni partitiche della Fed, le piu' recenti per
mano di presidenti repubblicani: le realizzo' Richard Nixon, con l'allora chairman Arthur Burns che si considerava esplicitamente
parte della squadra dell'amministrazione. E Ronald Reagan nomino' quattro esponenti che servirono a meta' anni Ottanta ad
approvare un taglio di tassi resistito dal chairman Paul Volcker. Ma da allora la Fed, sotto leader sia repubblicani (Greenspan,
Bernanke, Powell) che democratici, Yellen) ha mostrato una crescente capacita' di valutazioni indipendenti sulla base delle
analisi della congiuntura e del doppio mandato di prezzi stabili e massima occupazione. Critiche e ammissioni di errori non
sono mancate, ma neppure il riconoscimento che la sua arma migliore per contribuire alla salute di economia e mercati e la
sua autorevolezza tra operatori e pubblico che la considerano a-partitica.
La strategia di Trump ha quindi una elevatissima posta in gioco. E se due nomine non bastano a cambiare gli equilibri dei vertici della Fed, possono causare tensioni interne e difficolta' alla leadership di Jerome Powell: i due neocandidati sono noti per le loro esternazioni polemiche estranee alla cultura della Banca centrale. Nessuno dei due ha mai larvato in finanza o si e' occupato di politica monetaria (hanno ripetutamente cambiato idea sugli stimoli, contrari sotto Obama, a favore sotto Trump). E alla ribalta sono adesso saliti adesso sostenendo il Presidente a spada tratta: nei giorni scorsi Moore ha criticato la Fed affermando che mantiene una strategia troppo restrittiva per danneggiare le chance di rielezione di Trump. Moore e Cain potrebbero inoltre essere solo i primi di una lista: turnover tra i governatori sono possibili, piu' frequenti che alla Corte Suprema, e Trump potrebbe procedere con ulteriori nomine nella medesima direzione. Il potere decisionale spetta a un board composto di sette governatori permanenti (finche' dura il loro mandato) e di cinque esponenti a rotazione tra i responsabili delle 12 sedi regionali. Con quattro nomine il Presidente potrebbe mettere in minoranza Powell nel cuore del vertice della Fed, la pattuglia dei sette “permanenti”. La Fed, nota per il suo complesso doppio mandato di difesa del lavoro e lotta a eccessiva inflazione, potrebbe ora trovarsi a combattere una ancor piu' difficile e esistenziale battaglia su altri due fronti scottanti: contro le incognite economiche e, soprattutto, contro l'invasione della politica di parte.
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