NEW YORK - I grandi banchieri americani sono stati chiamati oggi collettivamente all’appello dal Congresso per la prima volta in dieci anni, dalla grande crisi. Una convocazione fatta scattare dalla nuova Camera a maggioranza democratica che vuole vederci chiaro sullo stato del settore e delle attività degli istituti leader. E soprattutto sul rischio che siano in agguato nuove débâcle davanti alla progressiva deregulation spinta dall’amministrazione di Donald Trump e messa in atto dalle authority, Federal Reserve compresa. Ma per i loro interventi, davanti alla Commissione sui Servizi Finanziari e trapelati ieri notte, i leader dei colossi di Wall Street hanno preparato risposte a base di poche preoccupazioni e tante assicurazioni: dipingono un’alta finanza in piena salute e al riparo da nuovi e pericolosi eccessi, che quindi merita di essere premiata da parziali ritirate delle riforme.
«Non ci sono dubbi che la forza, la stabilità e la resistenza del sistema finanziario sono fondamentalmente migliorate nel corso degli ultimi dieci anni», sostiene Jamie Dimon, il solo dei sette chief executive in aula a essere sopravvissuto al collasso. Dimon rende omaggio alle passate strette sui controlli: «Le riforme post-crisi hanno reso le banche molto più sicure e solide in tre aree importanti: capitale, liquidità, piani per risoluzioni delle crisi e recuperi». Da tempo è però il volto delle crociate per tagliare ora i loro artigli. Michael Corbat, Ceo di Citigroup, sottolinea l'esistenza ormai di «una robusta cultura di compliance» all’interno degli istituti, di verifica del rispetto delle norme, di capacità di «identificare errori e comportamenti irregolari».
Lo scetticismo, nonostante gli sforzi dell’alta finanza, resta diffuso e continua a essere rinfacciato ai vertici degli istituti. La presidente della Commissione sui Servizi Finanziari, la deputata Maxine Waters, ha rilasciato una presa di posizione attraverso il proprio staff: «Rimangono numerosi interrogativi se l’America sia servita al meglio dalle banche di maggiori dimensioni e di importanza sistemica e se esistano una sufficiente supervisione e adeguati meccanismi di responsabilità», si legge in un memorandum per le audizioni.
All’appello odierno manca però un altro protagonista essenziale: le authority che oggi stanno pilotando la deregulation. Ed è qui che si gioca la partita più complessa, tesa e gravida di potenziali conseguenze. Proprio nei giorni scorsi la Federal Reserve, uno dei principali protagonisti della supervisione bancaria, ha annunciato l’ultimo di una serie di passi concreti: ha alleggerito i “testamenti biologici” per gli istituti, quei documenti ai quali si riferisce Dimon con la definizione di “piani di risoluzione” preparati in vita al fine di organizzare la propria liquidazione in caso di irreversibile crisi. I cosiddetti “living will” erano stati imposti per avere piani di ordinata liquidazione degli asset di colossali istituti che evitassero in questo modo terremoti o necessità di salvataggi pubblici. Nella proposta della Fed questi piani dovranno d’ora in avanti essere presentati ogni quattro anni anziché ogni anno, con una versione sintetica ogni due anni, nel caso di otto giganti sistemici. Per i grandi istituti regionali e gli istituti stranieri con radici in America il requisito sarà triennale, alternando piani completi a versioni sintetiche. Per gli istituti stranieri e le filiali estere vengono inoltre considerati nuovi requisiti di liquidità già identificati per gli istituti domestici e che per loro costituiscono un ammorbidimento. Stando alla Fed nel caso delle banche estere il risultato, sulla base di considerazioni di dimensioni, presenza Usa e profilo di rischio, sarebbe invece differenziato, diminuiscono i requisiti per alcuni istituti e aumentano per altri quali Ubs e Credit Suisse. Le proposte sono soggette a un periodo di commenti che durerà fino al 21 giugno.
Il chairman della Fed Jerome Powell ha cercato di mitigare i timori di atteggiamenti troppo docili: ha sostenuto che il cambiamento non rappresenterebbe una modifica «sostanziale» degli standard di controllo. E parlando di recente a una conferenza di economisti a Manhattan, Randal Quarles, il governatore della Banca centrale con in portafoglio la regolamentazione bancaria, ha a sua volta adottato toni generalmente prudenti sulle svolte: ha suggerito che rivedere le riforme non significa svuotarle o fare marce indietro a epoche pre-crisi. Quarles è stato nominato al suo posto da Trump, ma ha fama di de-regulator illuminato.
Se però a parole la riconciliazione di preoccupazioni opposte è possibile, meno lo è fare davvero i conti con i fautori di ritiri delle riforme - che denunciano eccessivi lacci a finanze e economia - e i difensori delle nuove strette portate in dote dalla vasta legge anti-crisi Dodd-Frank e che sollevano al contrario lo spettro di nuovi abissi. La certezza è che la deregulation sta avanzando passo dopo passo, con la decurtazione dei living will - contrastata da un unico governatore, la progressista Lael Brainard scelta da Barack Obama - rivelatasi soltanto la mossa più recente.
Le lobby bancarie, che si sentivano strette sotto le maglie della nuova supervisione, hanno ottenuto ripetuti allentamenti delle redini sotto Trump: una normativa varata lo scorso maggio (il Financial Reform Act) ha deciso la riduzione delle restrizioni su tutti gli istituti sotto i 250 miliardi di dollari di asset. Tra i provvedimenti ai quali sta dando vita, ci sono semplificazioni e esenzioni dalla Volcker rule, la norma che ha messo al bando il trading proprietario e più rischioso da parte delle banche. Criteri meno stringenti sono stati anche studiati per gli stress test periodici delle banche.
Parallelamente all'onda della deregulation, nonostante le assicurazioni di regulators e banchieri, un'altra certezza comincia a farsi strada: quella di un ritorno del rischio. I segnali che innervosiscono gli osservatori si moltiplicano. È fresca la memoria di numerose banche che ancora nel 2016 avevano presentato living will giudicati del tutto inadeguati dalla Fed a proteggere il sistema finanziario e i contribuenti. Tra gli ultimi dati problematici che più attirano l'attenzione: in due anni, parallelamente alla deregulation, le banche hanno acceso oltre mille miliardi di dollari di prestiti corporate considerati rischiosi. Prestiti cioè a società dall’apparente scarsa solidità e che potrebbero non essere in grado di ripagarli nel momento in cui arrivassero rovesci economici. In un'intervista al Washington Post, un allarme l’ha lanciato l’ex chairperson della stessa Fed, Janet Yellen: «La prossima crisi potrebbe essere più seria, lunga e difficile da curare se non limiteremo simili pratiche».
© Riproduzione riservata