Da sabato 27 aprile banche, Borsa, uffici e scuole resteranno chiusi per dieci giorni di fila: in Giappone è una grande novità, legata a una occasione festosa. Il governo del premier Shinzo Abe ha voluto regalare alla popolazione dieci giorni di vacanza - prolungando la tradizionale «Golden Week» - per celebrare il passaggio a una nuova era del calendario tradizionale, sperando anche in una spinta all’economia da un presumibile aumento dei consumi.
Il 30 aprile finisce, dopo oltre trent’anni, l’epoca Heisei («Conseguimento della pace») con l’abdicazione dell’imperatore Akihito, 85 anni, e il primo maggio inizierà la nuova era «Reiwa» (“Splendida armonia») con l’ascesa al Trono del Crisantemo del figlio maggiore Naruhito, 59 anni.
In un passaggio fondamentale di una serie di elaborate cerimonie iniziate a marzo che dureranno fino a novembre, martedì prossimo, alle 17, nella Sala dei Pini del Palazzo Imperiale di Tokyo, Akihito formalizzerà la rinuncia davanti a 300 dignitari giapponesi. Un evento interno al Paese, in quanto occorrerà aspettare il 22 ottobre per la cerimonia che segnerà l’ufficializzazione internazionale del nuovo regnante, alla quale parteciperanno in massa i grandi della terra (su invito di Abe, Donald Trump anticiperà però ogni altro leader con una visita a Tokyo a fine maggio).
Sono passati quasi tre anni da quando Akihito annunciò a sorpresa in tv il desiderio di dimettersi, citando gli impedimenti che l’età avanzata gli avrebbe posto nello svolgimento dei compiti legati al suo ruolo costituzionale di simbolo dello Stato e dell’unità del popolo. L’esecutivo se l’è presa comoda nel far approvare le leggi necessarie alla transizione: l’ultima abdicazione imperiale avvenne nel lontano 1817 e negli ambienti governativi era trapelata una certa irritazione per uno sviluppo che, nei settori più tradizionalisti, veniva considerato in grado di indebolire il sistema imperiale e la sua sacralità.
Se l’imperatore Showa (Hirohito) aveva rinunciato formalmente alla divinità sotto l’occupazione americana, Akihito ha fatto moltissimo per modernizzare la percezione pubblica di una istituzione ancora caratterizzata da connotati religiosi: è stato il primo imperatore a sposare una non-nobile, a utilizzare un linguaggio ordinario, a parlare (in casi eccezionali) alla tv e a inchinarsi per consolare le vittime di disastri naturali.
Pur nello scrupoloso rispetto dei limiti costituzionali che lo escludono da ogni presa di posizione politica, Akihito ha manifestato - in azioni, posti visitati (come la Cina o vari scenari delle battaglie della seconda guerra mondiale), scelta di parole e persino nel linguaggio non verbale - di essere un forte sostenitore di un Giappone pacifista, pronto a riconciliarsi con tutti e aperto al resto del mondo. Naruhito - primo regnante ad aver passato anni all’estero per motivi di studio - promette di restare sulla stessa linea, più «liberal» degli orientamenti governativi.
Ampie sono state le riflessioni sull’era Heisei, a premessa di una sguardo dell’opinione pubblica che appare diviso tra incertezza, speranze e timori per la nuova fase che si apre. Le innumerevoli analisi e pubblicazioni concordano sul fatto che, pur senza singoli eventi «epocali», gli ultimi 30 anni abbiano portato grandi mutamenti. Quando morì l’imperatore Showa, il Giappone si trovava vicino al picco della bolla finanziaria e immobiliare: nel mondo si paventava un arrogante «Japan as Number One» destinato al dominio economico globale (lo stesso accade oggi per la Cina, che nel 2010 ha scalzato il vicino arcipelago come seconda economia mondiale). Scenario archiviato dallo scoppio della bolla, seguito da lunghi periodi di stagnazione puntellata da traumi nazionali (terremoto di Kobe e attacco con gas sarin a Tokyo nel 1995, triplice catastrofe del 2011). È poi finito il mito della società omogenea con l’emergere della «kakusa shakai», caratterizzata da crescenti disparità economiche, nella divisione tra chi ha un lavoro stabile e la nuova massa di precari.
Non pochi osservatori parlano di un cambiamento epocale in corso. «Siamo dentro il processo della terza grande trasformazione del Giappone», afferma l’analista politico Jeff Kingston, che ha appena pubblicato una storia del dopoguerra: a suo parere, dopo le radicali riforme seguite alla restaurazione Meji del 1868 ( tra rivoluzione industriale e degenerazione militarista) e dopo la reinvenzione post-bellica come una democrazia pacifista concentrata sullo sviluppo economico, siamo nel mezzo di una terza mutazione in direzione di una economi meno basata sul comparto manifatturiero e del passaggio da una nazione dalle impeccabili credenziali pacifiste a una con capacità militari anche offensive.
“I prossimi 30 anni saranno ancora più duri degli ultimi 30, ma non vedo un senso di urgenza di fronte alla crisi demografica”
Yasunori Sone, politologo all’Università Keio
Kingston sottolinea il paradosso del «nazionalista» Abe che «ha fatto più di tutti i suoi predecessori nel venire incontro alla lista dei desideri del Pentagono», che chiede a Tokyo di assumere più responsabilità per la sicurezza internazionale e per il contenimento della Cina (ma non è chiaro se il premier riuscirà a modificare la Costituzione ultrapacifista).
Altri osservatori evidenziano l’evoluzione del Sol Levante da politiche economiche mercantilistico-protezionistiche a un ruolo di promotore del libero scambio, o anche il grande rafforzamento del suo “soft power” culturale nel mondo. I pessimisti temono soprattutto la bomba demografica nel Paese a più rapido invecchiamento e diminuzione della popolazione, destinata a pesare sull’economia e su conti pubblici già gravati da un debito abnorme.
«I prossimi 30 anni saranno ancora più duri degli ultimi 30, ma non vedo un senso di urgenza di fronte alla crisi demografica», si allarma Yasunori Sone, politologo all’Università Keio. Altri trovano motivi di ottimismo nel potenziale tecnologico del paese e in quello insito in una società che resta comunque meno polarizzata che altrove.
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