DAL NOSTRO INVIATO
MADRID - Cinque partiti, due coalizioni (ancora da realizzare) e nessuna maggioranza. Dalle elezioni più confuse e incerte
della storia spagnola, le terze in tre anni e mezzo, uscirà un Parlamento molto frammentato e apparentemente incapace di esprimere
un blocco di governo.
Negli ultimi sondaggi diffusi prima dello stop elettorale, i Socialisti del premier uscente Pedro Sanchez staccano tutti i contendenti arrivando al 29,6% dei consensi; i conservatori del Partito popolare si fermano invece al 20 per cento; seguono i liberali conservatori di Ciudadanos con il 14,6% delle intenzioni di voto; la sinistra anticapitalista di Podemos raggiunge il 14 per cento; l'estrema destra di Vox ottiene con l'11,1% un risultato straordinario che segna l'ingresso in Parlamento di un partito xenofobo e nazionalista per la prima volta dalla morte del dittatore Franco.
Molto alta l’affluenza: il ministero dell’Interno ha comunicato che alle 18 ha votato il 60,7% degli aventi diritto, oltre 9 punti in più del 2016, quando l’affluenza si era fermata al 51,2 per cento. In forte rialzo la partecipazione al voto in Catalogna, al primo test elettorale dopo il fallito tentativo di secessione nel 2017: alle 18 era oltre il 64%, contro il 46% alla stessa ora del 2016.
L’ipotesi di due coalizioni (tutte da definire)
Gli appelli elettorali finali dei leader della sinistra e della destra - ai 36,9 milioni di elettori e soprattutto al 30%
di loro ancora indecisi - hanno fatto chiaramente intendere che sono due le coalizioni possibili, anche se tutte da definire.
Divise più che dalla politica sociale e dalle ricette economiche o dall'atteggiamento verso l'Europa, dalla questione catalana,
dalla risposta più o meno dura da dare alle rivendicazioni di indipendenza della Catalogna: il tema centrale di tutta la campagna
elettorale.
Sanchez, più morbido nei confronti di Barcellona, ha aperto a un nuovo accordo con Podemos e con Pablo Iglesias: «Non vedo
alcun problema a governare con ministri di Podemos», ha detto il premier socialista ricordando che “arrivare primi tra i partiti
non vuol dire vincere le elezioni» e che «la vera vittoria è governare». Nel fronte di destra e unionista, Pablo Casado, il
nuovo leader dei Popolari sta proseguendo sulla linea dura del suo predecessore Mariano Rajoy minacciando di commissariare
l'autonomia di Barcellona e si è proposto come «l'unica alternativa a Sanchez per mettere d'accordo i partiti vicini ed evitare
la paralisi del Paese», indicando tra gli amici oltre ad Albert Rivera con Ciudadanos anche Vox con il suo capo Santiago Abascal.
Una coalizione di sinistra formata dai Socialisti e da Podemos riuscirebbe a conquistare 164 seggi nel Parlamento spagnolo che conta in tutto 350 seggi, restando quindi ben sotto i 176 deputati necessari per ottenere la maggioranza. Mentre la coalizione di destra tra Popolari, Ciudadanos e Vox arriverebbe a 154 seggi. A dividersi i seggi rimanenti sarebbero i partiti nazionalisti regionali; quello basco e quelli della Catalogna che potrebbero quindi essere di nuovo decisivi per la formazione del governo. «I sondaggi della vigilia elettorale - spiega Angel Talavera di Oxford Economics – indicano un rischio molto alto che entrambe le coalizioni, di sinistra e di destra, non raggiungano in Parlamento i voti per governare. I negoziati tra partiti devono ancora iniziare ma credo che la probabilità di un secondo voto sia elevata, intorno al 50 per cento». La Spagna e la sua economia hanno tuttavia già dimostrato nel recente passato di saper resistere anche a prolungate fasi di vuoti di potere, di governi in carica senza piene funzioni, di governi senza maggioranza.
I mercati finanziari “snobbano” Madrid
«La buona notizia è che, come già accaduto in passato, i mercati finanziari sembrano non interessarsi dell'incertezza politica
di Madrid. Gli investitori – aggiunge Talavera - sono molto più preoccupati dall'evoluzione di Brexit o dalle schermaglie
tra il governo italiano e l'Unione europea».
Questo non vuol dire però che la Spagna possa vivere nell'incertezza politica e fare a meno di un governo stabile: già quest'anno
la crescita è destinata a rallentare al 2,2% e nel 2020 dovrebbe frenare ulteriormente fino al 2 per cento, secondo le previsioni
di Oxford Economics e di Bbva Research. «La rapida ripresa dopo la grande crisi – dice Pedro Videla, economista della Iese
Business School – è stata straordinaria ma ha lasciato irrisolti alcuni problemi di fondo. Se l'economia europea continua
a rallentare, se la Germania rallenta, l'equilibrio che la Spagna sembra aver trovato potrebbe non reggere. La politica non
può dunque permettersi di aggiungere difficoltà: la mancanza di un governo solido, lo scontro continuo con la Catalogna possono
compromettere rapidamente la credibilità guadagnata a fatica».
La Spagna (dopo lo scoppio della bolla immobiliare e il default delle casse di risparmio) ha sfruttato in pieno la protezione della Bce per ritrovare fiducia sui mercati internazionali, è ripartita dalle esportazioni con una pesante svalutazione interna favorita dalla riforma del mercato del lavoro e ha poi ritrovato il sostegno della domanda interna. «In larga parte la stabilità della Spagna è dipesa dall'euro e dal sostegno della Bce di Mario Draghi. Ma - afferma Videla - se si guarda a un orizzonte più lungo è evidente che la Spagna deve realizzare alcune riforme di base: quella del mercato del lavoro, reso molto flessibile ma ancora diviso tra posizioni protette e precariato; quella della scuola e della formazione in un Paese che ha un tasso di abbandono scolare altissimo e nel quale ancora il 15% dei giovani sotto i 25 anni non studia e non lavora; quella della spesa pubblica, non per tagliare ma per razionalizzare e se necessario reindirizzare le risorse».
In Spagna il tasso di disoccupazione dopo anni di crescita al 3% resta ancora molto alto, vicino al 15% e i conti pubblici devono essere tenuti sotto controllo, come hanno ripetuto più volte la Commissione europea e il Fondo monetario: il deficit pubblico a fine 2018 era ancora al 2,6% del Pil mentre il debito pubblico raggiungeva il 97,2% del Pil. Ma non è stata l'economia a dividere i partiti in questa campagna elettorale, la Catalogna, i piani di secessione della regione di Barcellona e la risposta che lo Stato deve dare agli indipendentisti sono stati dominanti nei dibattiti, nelle piazze, in tv e sui social media. Mentre a Madrid è in corso il processo per ribellione ai leader catalani che nell'autunno del 2017 si sono spinti fino a dichiarare l'indipendenza dalla Spagna. «Si è parlato molto di Catalogna, è vero, ma sempre per cercare lo scontro per accusare l'avversario. Non per proporre soluzioni o per trovare un accordo», osserva il costituzionalista basco Alberto Lopez Basaguren. «La destra continua a minacciare l'articolo 155 per azzerare l'autonomia catalana, la sinistra con Sanchez – continua Basaguren - sta cercando il dialogo ma non ha la forza per proporre una soluzione. Il governo e il Parlamento che verranno dopo le elezioni si ritroveranno di fronte alla stesso scontro con la Catalogna che abbiamo visto negli ultimi anni. Esattamente lo stesso scontro. Serve una riforma dello Stato in senso federale ma chi ha il coraggio di proporla oggi?».
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