NEW YORK - Trump ha un debole per gli uomini forti, i leader autoritari. Il presidente americano ha stupito la comunità internazionale e i suoi stessi diplomatici quando il 15 aprile ha telefonato al comandante libico Khalifa Haftar, l'uomo forte della Cirenaica che controlla gran parte della Libia a Est e a Sud e che sta conducendo l’attacco di Tripoli contro il governo di Fayez al-Sarraj, riconosciuto dall'Onu e sostenuto - almeno fino a ieri – anche dall'Italia.
L’endorsement di Trump nei confronti del generale Haftar è avvenuto subito dopo la visita alla Casa Bianca, il 7 aprile, del presidente egiziano Abdel al-Sisi. Trump ha parlato anche con il principe ereditario degli Emirati Arabi Uniti, Mohammed bin Zayed Al Nahnyan, altro grande sostenitore di Haftar. Haftar di recente è stato in Arabia Saudita a colloquio con il re Salman.
Gli Stati Uniti dal 2011 sono stati sempre a favore della mediazione delle Nazioni Unite per cercare di superare con una soluzione
politica le divisioni che hanno portato il Paese alla guerra civile la caduta del regime di Muammar Gheddafi.
Il semaforo verde americano ad Haftar per l'offensiva a Tripoli è arrivato con una prima telefonata del Consigliere per la
Sicurezza nazionale John Bolton, il falco dell'amministrazione Usa per la politica estera, ascoltato da Trump. Fino al 7 aprile
in una nota ufficiale il segretario di Stato americano Mike Pompeo scriveva ancora che gli Stati Uniti «si oppongono alla
offensiva delle forze di Khalifa Haftar» e chiedeva «l’immediato blocco delle operazioni militari contro la capitale libica».
Tre giorni dopo la telefonata di Trump ad Haftar, giovedì 18 aprile, gli Stati Uniti in Consiglio di Sicurezza Onu, assieme alla Russia, in maniera un po' inaspettata, non hanno sostenuto la proposta di risoluzione della Gran Bretagna per un cessate il fuoco immediato in Libia. L'America ha deciso il cavallo su cui puntare nella polveriera libica. Uno Stato con sei milioni di persone, ma strategico per le sue riserve petrolifere. Un deciso cambio di rotta rispetto alla posizione degli ultimi anni.
Trump e Bolton sostengono un nuovo ordine in Medio Oriente guidato da Arabia Saudita ed Emirati Arabi ostile all’Iran sciita, al Qatar, alle milizie come Hezbollah o come i ribelli Houthi in Yemen sostenuti dagli Ayatollah. Un Medio Oriente che rispetta Israele. E dove, se necessario, vengono preferiti i leader autoritari per mantenere il controllo sugli islamisti. Proprio come l’uomo forte della Libia.
Il generale Haftar, 75 anni, è molto vicino agli americani (ha la doppia cittadinanza libica e statunitense). E in questi anni, nella polveriera libica, ha attratto consensi proponendosi come uomo di garanzia contro l'avanzata degli islamisti, nonostante tra le sue forze non manchino combattenti della prima linea salafita. Originario di Ajdabiya, citta costiera a 150 km da Bengasi, Haftar è tra gli ufficiali che nel 1969 sconfisse il re Idris. Fu uno dei comandanti dell’esercito di Gheddafi nel conflitto tra Libia e Ciad. Nel 1987 venne preso prigioniero. Sostenuto dagli Stati Uniti, in Ciad formò un contingente di circa 2mila prigionieri libici che tentò di rovesciare senza successo il regime di Gheddafi. Rilasciato nel 1990 dalle carceri libiche, sempre grazie all'appoggio degli Usa, è stato in esilio negli Stati Uniti. E per quasi 20 anni ha vissuto a pochi chilometri dalla sede della Cia di Langley, in Virginia, vicino alla capitale federale Washington D.C. «Aveva un tenore di vita alto, viveva in una villa con la sua famiglia e dagli Usa sosteneva il clan, la famiglia allargata africana, ma nessuno sapeva da dove arrivassero i suoi soldi perché non lavorava», ha raccontato un suo amico. Secondo molti osservatori Haftar è stato per anni sul libro paga della Cia. Lui ha sempre smentito.
Nel 2011 è tornato in Libia e ha cercato di prendere il comando delle forze ribelli e molti sospettavano fosse sostenuto dalla Cia. L'attentato terroristico al Consolato americano di Bengasi nel 2012, nel quale fu ucciso l'ambasciatore americano Chris Stevens, è stato in qualche modo la sua fortuna. Perché da allora il comandante Haftar si è definito il leader anti-islamista della Libia: nel 2014 è apparso in tv e ha lanciato la sua “Operazione dignità” per ristabilire la sicurezza nel Paese martoriato dalle divisioni e contro i militanti islamisti di Bengasi. Da lì è stato un crescendo: prima è diventato il capo militare del governo della Cirenaica, poi le sue forze hanno preso il controllo del territorio, via via maggiore, dei giacimenti più importanti del Paese e dell'hub petrolifero di Sirte, sino alla decisione di lanciare a inizio mese l'attacco finale a Tripoli.
Arabia Saudita, Emirati, Russia e anche la Francia sostengono apertamente Haftar. Ora gli Stati Uniti diventano l'ago della bilancia. L'Onu è a favore del governo Sarraj e cerca una soluzione politica che rappresenti tutte le parti, sempre più fragile. L'Italia fino a pochi giorni fa almeno era con Sarraj. La partita principale che si gioca sottotraccia con i cugini francesi è quella per il controllo del petrolio libico e delle sue immense riserve. Non sarà un caso se il premier Giuseppe Conte da Pechino, forse cercando di smarcarsi da una posizione debole, ha detto che «l’Italia non è a favore né di Sarraj e né di Haftar ma del popolo libico che sta soffrendo da troppo tempo».
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