È stata una doverosa correzione di rotta. Gli obiettivi finali, però, non cambiano. Le riforme varate il 25 aprile da Emmanuel Macron confermano l’orientamento del presidente. Sono scomparsi i toni da “Giove dell’Eliseo” ma la sostanza resta invariata.
Qualche ritocco era necessario. Nei suoi primi passi, Macron è intervenuto per risolvere alcune criticità. Ha però compiuto due errori evitabili: ha sbagliato la sequenza degli interventi e ha dimenticato che alcuni problemi – come la malaise della classe media – possono cronicizzarsi senza diventare mai acuti e quindi politicamente impellenti.
I capocordata e gli ultimi
Il presidente, che ha molto a cuore i premier de cordée, i capocordata, ha abolito subito l’Impôt de solidarité sur la fortune, un’ampia patrimoniale, per incentivare il risparmio; e le tasse sui salari alti per rendere il Paese appetibile ai grandi
gruppi, in vista dei “traslochi” legati alla Brexit. Più in sordina, ha annunciato – rinviandolo al 2020 – un Plan poverté per aiutare 14 milioni di poveri. Sarebbe bastato questo – più qualche commento infelice – per fare del banchiere d’affari
di Rothschild il “presidente dei ricchi”. Macron però è andato oltre: rivedendo tutti i contributi sociali, li ha aumentati
per i pensionati, ai quali ha anche ridotto l’adeguamento all’inflazione.
Potere d’acquisto e servizi
Al presidente questo schema sembrava ottimale. La classe media vedeva aumentare il potere d’acquisto: per i dipendenti, per
esempio, i contributi sociali sono stati ridotti. Le cose però si sono rivelate più complesse. La provincia, su cui già pesava
il désert médical, la carenza di servizi sanitari, ha visto ospedali e scuole ulteriormente minacciati dai tagli alla spesa pubblica, a loro
volta legati alla necessità di portare i conti in ordine. Tagli analoghi, voluti in Gran Bretagna da David Cameron, hanno
alimentato lo scontento sfociato nella Brexit; era facile aspettarsi un esito simile in Francia; e così è stato.
Ambiente: chi paga?
Il piano strategico per la sostenibilità ambientale – punto chiave dell’immagine di Macron – si è poi tradotto in un progressivo
rallentamento del piano di riconversione del nucleare – a fine aprile gli obiettivi sono stati rinviati di altri 10 anni -
e in un aumento dei costi per il trasporto in auto, importante in un Paese vasto (la sua superficie è più del doppio di quella
italiana, quasi il doppio di quella tedesca) dove i tempi di spostamento dei pendolari sono molto elevati. La riduzione della
velocità massima sulle strade extraurbane – legata però all’obiettivo di azzerare la mortalità per incidenti – ha chiuso il
cerchio: gli automobilisti, il gilet giallo indosso, sono scesi in piazza. E lì sono rimasti, malgrado un andamento macroeconomico
del Paese migliore, e una situazione delle famiglie meno drammatica, di quella di altre economie europee.
Sintomi ignorati
Il gran parlare – soprattutto in Francia – di diseguaglianze avrebbe dovuto quantomeno essere interpretato come un sintomo
di un diffuso malessere. La politica, oggi, appare però disarmata di fronte a questi problemi e al connesso crollo nella
fiducia dei cittadini. Macron, di fronte alle proteste, ha scelto di affrontare le emergenze. In una prima fase ha cercato
di sganciare la maggioranza della popolazione dai Gilet, che si sono radicalizzati e hanno adottato obiettivi politici. Ha
deciso l’aumento (robusto e insidioso per l’occupazione, in Francia) dei salari minimi, ha varato incentivi ai premi aziendali
(5,5 milioni di dipendenti hanno ottenuto in media 400 euro), ha detassato gli straordinari, ha bloccato l’aumento dei contributi
a carico dei pensionati.
Una nuova sequenza
Dopo il Grand débat national, in cui il presidente è “sceso” tra i cittadini, Macron ha invece rimesso a punto la sua strategia
originale. Senza veri cedimenti: non sarà reintrodotta l’imposta sui patrimoni e il Piano povertà rimane rinviato al 2020.
Il vero senso delle sue iniziative, al di là dei numerosi annunci, è dato dalla sequenza degli interventi definita dal presidente
del consiglio Edouard Philippe. Il Governo inizierà subito un’ampia discussione sul lavoro, che potrebbe fornire anche gli
strumenti per “compensare” le imprese dei tagli alle detrazioni fiscali, che finanzieranno il calo delle imposte. L’obiettivo,
per Macron, è quello, classico, di far incontrare domanda e offerta. Sarà inoltre istituito il Conseil de défence écologique, che risponde alle priorità del presidente.
A giugno sono concentrate le vere novità legate al Débat. Saranno definiti i tagli alle imposte sui redditi per 5 miliardi, in media 133 euro annui per famiglia. Saranno poi estratti a sorte i 150 cittadini del nuovo Conseil de la participation citoyenne, piccola concessione alla democrazia diretta. Sul decentramento (anzi, «deconcentration») si inizierà a discutere: si darà più poteri ai sindaci - un veto, forse, sulla chiusure di scuole e ospedali - rafforzando il coordinamento dei prefetti. La riforma dei sussidi di disoccupazione è parte del programma originario.
Costituzione e riforme
A luglio sarà il turno della riforma costituzionale, che in realtà prevede di nuovo solo un timida forma di referendum;
e saranno definite le modalità per i nuovi servizi sociali, soprattutto a favore dei bambini. Su altre misure si inizierà
a discutere subito, ma i provvedimenti arriveranno in autunno. A settembre si varerà la riforma delle pensioni, per «incentivare
i francesi a lavorare di più» (ed è quindi destinata a sollevare controversie). A ottobre saranno note le conclusioni tecniche
sull’evasione fiscale. A novembre sarà pronta la riforma delle grandi scuole, con la soppressione dell’Ena, che sente il peso
della concorrenza dei master per manager privati. Non è però una concessione al populismo: Macron resta a favore di un «elitismo
repubblicano».
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