Si avvicina davvero una guerra tra Iran e Stati Uniti oppure si tratta solo di inoffensive minacce, a fini propagandistici? Quando, l’8 maggio del 2018, il presidente americano Donald Trump decise unilateralmente di uscire dall’accordo sul nucleare iraniano, ripristinando le sanzioni Usa contro Teheran, la Comunità internazionale aveva una speranza, per quanto fievole, ed un timore, fondato. La speranza era trovare una soluzione di compromesso con Trump per salvaguardare l’accordo. Il timore era che, in caso contrario, si innescasse un progressiva escalation capace di destabilizzare l’intero Medio Oriente e creare un habitat congeniale per un nuovo, grande conflitto.
Un anno più tardi la speranza è andata delusa. Il timore, invece, si è rivelato fondato. Il durissimo confronto tra Washington e Teheran ha portato i due Paesi rivali a utilizzare sempre più spesso toni bellicosi. I falchi della Casa Bianca ormai non esitano più a evocare lo spettro di una guerra contro l’Iran.
Navi, caccia e missili americani nel Golfo. La guerra è più vicina?
Per ora si tratta di minacce. Le ultime, per bocca del Segretario di Stato Mike Pompeo, da sempre un falco ostile all’Iran,
accennano direttamente a un conflitto. «Il regime di Teheran dovrebbe capire che a qualsiasi attacco da parte loro o dei loro
delegati di qualsiasi identità contro gli interessi o i cittadini degli Stati Uniti verrà risposto con una replica rapida
e decisa da parte degli Stati Uniti», ha affermato.
La situazione è davvero tesa. E sta progressivamente deteriorandosi. A metà aprile Trump ha deciso di includere nella lista delle organizzazioni terroristiche le Guardie della Rivoluzione, i pasdaran iraniani. Poi il secondo passo. Da alcuni giorni , la portaerei americana Uss Abraham Lincoln, un gigante con a bordo oltre 40 cacciabombardieri, si sta dirigendo nei pressi del Golfo Persico. A questa task force navale si aggiungeranno presto almeno quattro bombardieri pesanti B-52 (numero che potrebbe aumentare). Si tratta di aerei che percorrono lunghe distanze utilizzati per bombardamenti da grandi altezze con ordigni ad alto potenziale distruttivo. Ieri, infine, il Pentagono ha ufficializzato che muoverà una batteria di missili Patriot in Medio Oriente.
Non è chiaro dove saranno schierati. Forse in Bahrein, Kuwait e Giordania, dove l’anno scorso erano stati ritirati
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Ma non finisce più. Qualche giorno prima il consigliere alla Sicurezza nazionale, John Bolton, aveva lanciato un allarme: secondo non meglio precisate fonti di intelligence le forze iraniane, o le loro milizie non ufficiali, starebbero preparando un attacco imminente contro gli Stati Uniti ed i loro interessi da qualche parte del Medio Oriente. Un annuncio generico, non troppo credibile che comunque rafforza un contesto di grande tensione. Forse voleva essere una sorta di pistola fumante o qualcosa di vicino per creare un precedente.
D’altronde Bolton è’uomo che già tre anni fa vedeva un bombardamento contro Teheran come la soluzione migliore per impedire all’Iran di portare avanti senza controlli il suo programma nucleare che, a suo giudizio, era mirato esclusivamente a sviluppare un arsenale nucleare.
Ma chi vuole veramente un’azione militare contro Teheran? Sicuramente per Israele e Arabia Saudita un ridimensionamento di Teheran attraverso un reale azione militare sarebbe più che ben visto. Permetterebbe ad Israele di arginare l’espansione del suo nemico più pericoloso, allontanandolo dalla Siria, e consentirebbe ai sauditi di realizzare il loro sogno; provare a divenire la vera potenza regionale del Golfo Persico.
Le nuove sanzioni americane
Sono trascorsi meno di 4 anni dall’estate del 2015, quando il presidente Barack Obama annunciò al mondo l’accordo concordato
tra il gruppo 5+1 (Usa, Russia, Cina, Francia, Francia e Regno Unito) e l’Iran. Il Jpcoa rispondeva soprattutto ad un obiettivo:
evitare che l’Iran si dotasse di un arsenale nucleare. Fino ad oggi Teheran aveva rispettato i termini dell’accordo che limita
la sua attività nucleare. Ma la ripresa delle sanzioni americane ha gradualmente ridotto le sue esportazioni di greggio. E
per un Paese come l’Iran le entrate energetiche sono una fonte indispensabile, in alcun modo non surrogabile.
Che gli Ayatollah non fossero disposti a veder le esportazioni petrolifere crollare a causa delle sanzioni senza far nulla, era prevedibile. Così mercoledì il presidente iraniano Hassan Rohani ha minacciato di uscire a sua volta, anche se solo in parte, dal Jpcoa se gli altri paesi del 5+1 non riprenderanno le loro relazioni commerciali con Teheran contravvenendo alle sanzioni americane. Se ciò non dovesse avvenire entro due mesi il presidente iraniano ha minacciato di non vendere più all’estero il minerale arricchito, superando così il limite di 300 kg prescritto dal Jpcoa. Non solo ha perfino accennato alla ripresa delle attività di arricchimento oltre la gradazione consentita dall’accordo.
Immediata la reazione americana, avvenuta poche ore dopo. Trump ha gettato benzina sul fuoco annunciando un nuovo e ulteriore round di sanzioni. Con un ordine esecutivo, firmato seduta stante, ha creato nuove sanzioni su ferro, acciaio, alluminio e rame esportati dall’Iran. «L’ordine esecutivo – scrive l’agenzia Reuters - permette di imporre sanzioni nei confronti di istituzioni finanziarie straniere tra le cui attività rientrano transazioni legate al settore metallurgico iraniano».
Si tratta del terzo round di sanzioni. Il secondo, quello più duro, che includeva l'embargo sulle esportazioni iraniane di greggio, era scattato il 4 novembre. Allora Trump aveva preferito cedere al pragmatismo. Per evitare impennate dei prezzi del petrolio, che avrebbero potuto scatenare il malcontento proprio tra i suoi elettori in un momento molto delicato, aveva ammorbidito la sua strategia della «tolleranza zero» nei confronti di Teheran, permettendo a otto paesi di continuare ad importare greggio iraniano per altri sei mesi. Si tratta di Cina, India, Corea del Sud, Turchia (in ordine i primi quattro acquirenti di greggio iraniano), Giappone , Taiwan e due paesi europei, Italia e Grecia. Giusto per avere un’idea, sette di questi Paesi acquistano, complessivamente, oltre l’80% del greggio iraniano venduto nel mondo.
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Il crollo dell'export di greggio iraniano
Le esenzioni dalle sanzioni americani sono terminate il 2 maggio. Se Italia, Grecia , avevano già praticamente provveduto
ad azzerare gli acquisti da Teheran, la stessa cosa non si poteva dire di alcuni paesi asiatici. In verità tutti stanno riducendo
gli acquisti da Teheran, o stanno preparandosi a farlo. (la Cina ha aumentato le importazioni per stoccarne il più possibile).
Secondo quanto riporta l’agenzia Bloomberg «nessuna nave diretta a porti stranieri sta lasciando i terminali petroliferi iraniani».
Altri analisti prevedono che entro agosto le esportazioni iraniane si dimezzereanno.
Trump contro i falchi della Casa Bianca
Fa specie che proprio Trump, l’artefice dell’abbandono dell’ accordo sul nucleare, stia vestendo i panni della “colomba” per
contenere le posizioni oltranziste dei falchi della sua Amministrazione, peraltro nominati da lui stesso. Giovedì il presidente
americano ha infatti preso le distanze sulle bellicose dichiarazioni di Bolton e Pompeo. «Quello che dovrebbe fare l’iran
è chiamare, sedersi a un tavolo, e così potremmo arrivare ad un accordo. Un accordo corretto. Quello che noi vogliamo è che
loro non abbiano una bomba atomica, non è molto quello che chiediamo. E li aiuteremo a ritornare in «gran forma». In questo
momento sono davvero in «cattiva forma». Aspetto il giorno in cui potremo aiutare l’Iran. Non stiamo cercando di ferire l’Iran.
Io voglio che lo loro siano un Paese forte con una grande economia».
Parole tutt’altro che bellicose. Forse Trump ha finalmente preso atto che una conflitto contro l’Iran scoprirebbe un vaso di Pandora. Potrebbe avere delle conseguenze imprevedibili, forse catostrofiche, per l’interoMedio Oriente, e non solo. Forse Trump ha compreso che i suoi falchi non scherzano affatto quando usano toni bellicosi. E neppure i sauditi. Tanto meno gli israeliani.
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