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il titolo crolla in borsa

Apple, schiaffo della Corte Suprema Usa: via libera alla class action contro il monopolio delle app

New York - Apple è nel mirino di un vasto caso antitrust, che potrebbe costarle miliardi di dollari nei prossimi anni. In gioco è una class action portata dai consumatori, che sfidano il controllo assoluto rivendicato dal colosso di Cupertino sul mercato delle applicazione per gli iPhone. Il caso contro l'eco-sistema del gruppo guidato da Tim Cook ha ricevuto in queste ore l'autorizzazione a procedere dalla Corte Suprema degli Stati Uniti, alla quale l'azienda si era rivolta per chiedere che venisse bocciato: grazie al voto di cinque alti magistrati contro quattro, la denuncia potrà procedere perché i querelanti hanno ogni diritto di farla valere.

La battaglia, stando agli esperti, potrebbe durare uno o due anni prima di arrivare a una decisione dei tribunali nel merito della vicenda; qualora Apple perdesse i danni appaiono però significativi, come dimostrato dall’immediata reazione di Wall Street: la Borsa ha punito i titoli della Mela con una flessione di circa il 6% attorno a quota 185 dollari, ben più del 2%-3% perso dei principali indici. Le azioni del leader hi-tech - sensibili anche all’esposizione alla Cina oggi nuovamente al centro di guerre commerciali con gli Usa - sono sotto pressione da inizio maggio, dopo essere risalite dai minimi di 142 dollari di inizio anno fino a 211 dollari.

L'accusa è che Apple avrebbe gonfiato i prezzi dei software forzando la loro compravendita soltanto attraverso il proprio App Store. L’azienda intasca quella che è stata ribattezzata da sviluppatori e critici come la “Apple Tax”: una commissione del 30% su ogni transazione e del 15% su ogni abbonamento comprato nel suo “negozio” digitale dopo il primo anno. Con 900 milioni di iPhone in circolazione nel mondo, le cifre sono da capogiro.

Un tesoro sul quale Apple conta. Le vendite di app rappresentano ormai il 35% dell'intero segmento dei servizi di Apple, l'attività sulla quale oggi il gruppo scommette sempre più per le prospettiva di crescita davanti alla frenata del prodotto di punta nell'hardware, appunto l'iPhone. Il segmento è cresciuto del 30% solo nell'ultimo anno fiscale e sfiora i 40 miliardi di dollari di fatturato. La sua presa è evidente dal confronto con Google: i consumatori hanno speso complessivamente circa 46,6 miliardi nel 2018 in app per iPhone e iPad, il doppio di quanto investito in Google Play.

Sotto tiro, nello scontro legale, sono finite anche le regole ferree con cui Apple governa l’App Store: tra queste l'obbligo che i prezzi finiscano tutti con 99 centesimi di dollaro, nei fatti costringendo i developer a stabilirli in incrementi di un dollaro. Apple si è difesa dalle accuse sostenendo che la legge consente ricorsi solo da parte di acquirenti diretti di prodotti, mentre lo status di “intermediario” dell'azienda la metterebbe al riparo. Una tesi che non ha affatto convinto la Corte Suprema.

Apple ha risposto alla decisione della Corte Suprema affermando di essere certa che le sue ragioni troveranno alla fine ascolto: «La decisione significa che i querelanti possono procedere con il loro caso presso la corte distrettuale. Abbiamo fiducia che quando i fatti saranno presentati prevarremo e che l’App Store non è in alcun senso un monopolio. Siamo orgogliosi di aver creato la più sicura e accreditata piattaforma per i consumatori e una grande opportunità di business per tutti gli sviluppatori». Apple sostiene che gli sviluppatori stabiliscono il prezzo delle app, che la maggior parte è gratuita e che i developer hanno molteplici piattaforme tra le quali scegliere per offrire i loro software.

La vicenda ha anzi visto una rottura tra i due giudici nominati da Donald Trump alla Corte: Brett Cavanaugh ha votato assieme ai quattro magistrati liberal, facendosi carico di scrivere l'opinione di maggioranza a supporto della scelta. Neil Gorsuch si è invece schierato con i conservatori, questa volta finiti in minoranza. Cavanaugh ha indicato, in una argomentazione di 14 pagine, che «se accettata, la teoria esposta da Apple fornisce una mappa a retailer monopolistici per strutture transazioni con imprese manifatturiere o fornitori in modo di eludere rivendicazioni antitrust da parte dei consumatori e quindi ostacolare un efficace esercizio dell'antitrust».

Il caso in questione prende il nome di Apple v. Pepper N. 17-204 e ha considerato la validità di un precedente del 1977 che permetteva solo ad acquirenti diretti di prodotti di presentare ricorsi antitrust a livello federale. Apple aveva già perso a livello di corte d’Appello a San Francisco, che aveva affermato come l'azienda sia da considerare «un distributore di app per iPhone» che li «vende direttamente agli acquirenti attraverso l'App Store». La sconfitta alla Corte Suprema, però, non era affatto scontata.

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