NEW YORK - Il Dipartimento di Stato Usa ha ordinato al personale non essenziale dell’ambasciata americana a Baghdad e del consolato a Erbil di lasciare l’Iraq. Lo rende noto l’ambasciata Usa, aggiungendo che i normali servizi per i visti saranno temporaneamente sospesi e che il governo americano ha limitato la capacità di fornire servizi di emergenza ai cittadini Usa in Iraq.
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L’allerta arriva dopo che Washington ha denunciato imminenti minacce dall’Iran contro interessi e cittadini Usa nella regione.
Il Cremlino è «preoccupato» per la situazione creatasi con l’Iran e ritiene che gli Usa «continuino a creare tensioni», ha detto il portavoce russo Dmitry Peskov. La salvezza dell’accordo sul nucleare iraniano dipende dalle misure che verranno prese dai partner europei per compensare le loro esitazioni dell’ultimo anno rispetto al ritiro unilaterale degli Stati Uniti e alle sanzioni Usa. Lo ha sostenuto il capo del Consiglio strategico per le Relazioni Internazionali di Teheran, Kamal Kharrazi, in un incontro con l’ex premier francese Jean-Pierre Raffarin. «La resa dell’Europa agli Stati Uniti avrebbe conseguenze spiacevoli per loro», ha detto Kharrazi, assicurando che l’Iran è pronto a resistere alla pressioni americane. Raffarin ha assicurato che Parigi è impegnata nel dialogo per risolvere i problemi. «Nessuno in Francia concorda con la politica delle sanzioni degli Stati Uniti», ha detto l’ex premier transalpino.
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Intanto a Teheran vengono formalizzati mercoledì i passi indietro del governo sull’accordo nucleare. La commissione Sicurezza Nazionale ed Esteri del Parlamento iraniano inizierà l’esame del settimo rapporto semestrale sull’attuazione del Piano d’azione globale congiunto (Jcpoa) sul nucleare. La discussione giunge a una settimana dall’ultimatum del presidente Hassan Rohani ai restanti partner del Jcpoa sulle condizioni di Teheran per il mantenimento dell’accordo dopo il ritiro unilaterale e le sanzioni Usa.
Nelle scorse settimane gli Stati Uniti hanno bloccato l’import di greggio dall’Iran, con il mancato rinnovo delle esenzioni a otto paesi, Italia compresa (e anno esteso il divieto all’import anche ad acciaio, alluminio, rame, ndr) Ennesimo tassello alla politica dell’amministrazione Usa di “massima pressione” verso il regime degli ayatollah. Dopo l’inserimento dei Guardiani della rivoluzione iraniana nell’elenco delle organizzazioni terroristiche straniere accusati di finanziare gli Hezbollah libanesi e altri ribelli sciiti anti-Israele. E in seguito all’uscita degli Usa nel maggio 2018 dall’accordo sul nucleare Onu con l’Iran del 2015.
L’obiettivo dell’amministrazione è quello di «portare a zero l’export» di petrolio iraniano. Il petrolio vale il 40% dei ricavi della Repubblica islamica dell’Iran. Ricavi, sostengono gli americani, usati per sostenere
i gruppi terroristici, sviluppare i programmi missilistici e altri comportamenti destabilizzanti.
La Casa Bianca vuole isolare l’Iran, spingerlo alle riforme e a rinegoziare l’accordo sul nucleare. Le ambizioni di egemonia
iraniana nell’area ne escono inevitabilmente ridimensionate. L’azzeramento dell’export iraniano ha generato una pressione
sui prezzi petroliferi, che secondo molti osservatori è un altro aspetto legato all’offensiva economica americana.
Da quando Trump nel maggio 2018 ha annunciato l’uscita degli Usa dall’accordo nucleare più di 1,5 milioni di barili di petrolio
iraniano sono stati tolti dal mercato. Il Dipartimento di Stato stima che le sanzioni unilaterali decise dagli Usa abbiano
ridotto gli introiti petroliferi all’Iran di oltre 10 miliardi di dollari.
Scende l’Iran e aumenta la produzione Usa. Proprio ieri Trump nella presentazione del suo programma di sviluppo delle infrastrutture e negli investimenti per il settore energetico ha ripetuto che gli Stati Uniti non sono mai stati così attivi nella produzione petrolifera e di gas liquefatto e nei nuovi investimenti alla ricerca di giacimenti: l’output petrolifero dei paesi non-Opec, guidati dagli Stati Uniti, si stima in espansione di 2,2 milioni di barili al giorno nel 2019-2020, secondo i dati del Dipartimento all’Energia. La produzione petrolifera Usa è aumentata e nel mese di marzo è arrivata a 12 milioni di barili al giorno: 1,6 milioni di barili in più rispetto a un anno fa. Così come le esportazioni di greggio Usa che nel gennaio 2019 hanno raggiunto i 2,5 milioni di barili al giorno (+90% rispetto all’anno prima).
Degli otto paesi che dal 2 maggio non hanno visto rinnovate le esenzioni Usa per l’import di greggio dell’Iran, tre paesi – Italia, Grecia e Taiwan – hanno già cessato da mesi di acquistare petrolio iraniano. Gli altri cinque Cina, India, Giappone, Corea del Sud e Turchia hanno continuato ad acquistarlo.
L’annuncio della Casa Bianca aveva provocato la dura reazione della Cina che importa circa la metà del suo fabbisogno di greggio
dall’Iran. «La Cina si oppone alle sanzioni unilaterali americane», ha detto un portavoce del ministro degli Esteri. «La cooperazione
economica tra Cina e Iran è trasparente segue le leggi e va rispettata». Pechino è il primo acquirente di petrolio dall’Iran
e ha aumentato gli acquisti quest’anno, il contrario di quanto chiesto dagli Stati Uniti. Ad aprile secondo i dati del tracking
delle petroliere Refinitiv, la Cina ha acquistato 750.000 barili al giorno di greggio iraniano, circa la metà dell’export
totale di Teheran. La Cina continuerà ad acquistare petrolio dall’Iran, almeno nell’immediato, secondo tutti gli analisti
del settore. E ogni mossa di Pechino per cercare di acquistare ancora greggio iraniano obbligherà gli Stati Uniti a imporre
sanzioni economiche alle società e alle banche cinesi. Come ha detto Jason Bordoff, direttore del Centro delle politiche energetiche
globali della Columbia University: «Le sanzioni all’Iran si preparano a essere una ulteriore grande sfida per le relazioni
sino-americane».
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