Il petrolio saudita è finito nel mirino di un nuovo attacco, in un’accelerazione di eventi che fa sospettare una regia occulta, forse alla ricerca di un casus belli contro l’Iran. A meno di quarantott’ore dal misterioso sabotaggio delle petroliere all’imbocco del Golfo Persico, droni aerei hanno colpito due stazioni di pompaggio della East-West Pipeline, oleodotto che offre una preziosa via di trasporto alternativa per il greggio in caso di problemi nel Golfo Persico perché attraversa l’Arabia Saudita da Oriente a Occidente, fino al porto di Yanbu sul Mar Rosso.
L’attentato non ha fatto vittime e i danni sono rimasti contenuti, assicura Riad, tanto che non ci sono state ripercussioni sulle esportazioni petrolifere, anche se «per precauzione» l’oleodotto è stato temporaneamente chiuso. Ma l’episodio è stato accolto con allarme dal mercato: le quotazioni del Brent sono salite di oltre l’1%, superando i 71 dollari al barile. Il ministro saudita dell’Energia, Khalid Al Falih, ha condannato l’episodio sottolineando che per Riad «questi attacchi dimostrano ancora una volta che è importante fronteggiare i terroristi, comprese le milizie Houthi nello Yemen, che sono spalleggiate dall’Iran».
Gli Stati Uniti – che hanno inviato portaerei e cacciabombardieri nel Golfo Persico per rispondere a presunte imminenti minacce iraniane – ufficialmente non hanno ancora puntato il dito contro Teheran. Ma il presidente Donald Trump ha avvertito la Repubblica islamica di non compiere passi falsi: «Se fanno qualcosa, sarà un terribile errore». Trump ha smentito di avere in programma l’invio di 120mila militari in Medio Oriente, come scritto dal New York Times: «È assolutamente fake news, non l’ho pianificato», ha assicurato, aggiungendo però che «se lo facessi manderei un numero di soldati maledettamente più alto».
La tensione in ogni caso sta montando a livelli sempre più pericolosi. I servizi segreti americani, secondo un funzionario Usa sentito dalla Reuters, si sono ormai convinti che entrambi gli attentati contro il petrolio saudita – quello di ieri e quello di domenica – siano da ricondurre a gruppi filoiraniani, se non addirittura a una responsabilità diretta della Repubblica islamica. Tra i principali sospetti la fonte cita le milizie sciite attive in Iraq e appunto gli Houthi dello Yemen.
In un messaggio televisivo ieri mattina questi ultimi avevano in effetti rivendicato un attacco con sette droni contro obiettivi petroliferi sauditi (che però non avevano identificato). Alcuni analisti dubitano però che il gruppo sia in grado, per dotazione di armamenti e capacità di pianificazione, di realizzare un attentato così sofisticato.
Quanto all’episodio di domenica, ci sono ancora molti elementi di incertezza che rendono difficile dimostrare un collegamento (che pure sembra plausibile) con quello di ieri.
Quattro petroliere, di cui due saudite, erano state danneggiate al largo di Fujairah, negli Emirati Arabi Uniti: un’area adiacente allo Stretto di Hormuz, da cui transita un terzo dell’export mondiale di greggio via mare. È proprio lì che le Guardie rivoluzionarie iraniane avevano minacciato di fermare le petroliere altrui, se le sanzioni Usa avessero impedito a Teheran di esportare. E Trump aveva citato proprio gli Emirati, insieme all’Arabia Saudita, come alleati pronti a compensare la perdita di barili iraniani.
Immagini satellitari esaminate dall’Associated Press non mostrano danni visibili alle petroliere di cui è stato denunciato il sabotaggio. La Thome Ship Management, proprietaria di una delle quattro – la Andrea Victory, battente bandiera norvegese – afferma che «un oggetto sconosciuto» ha aperto una falla nello scafo, poco sopra il livello dell’acqua. Mentre funzionari Usa riferiscono alla stessa Ap che i danni alle petroliere, a un primo esame dei militari, sono apparsi compatibili con l’impiego di esplosivi.
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