Clifton Broumand ha fondato e dirige la sua azienda di computer, la Man & Machine, specializzata in accessori di qualità come tastiere e mouse impermeabili: le componenti sono “made in China”, con design e assemblaggio finale negli Stati Uniti, a Landover, Maryland. Un modello che ha funzionato per 40 anni e adesso è in piena crisi: «Non vedo vie d’uscita, devo spostare almeno parte della produzione, forse a Taiwan, per evitare dazi del 25%, esser costretto ad aumentare i prezzi e cercare di sopravvivere alla concorrenza».
Quello di Broumand è un trauma collettivo, che riguarda piccole imprese - Man & Machine ha una trentina di dipendenti e vendite per sei milioni di dollari - e colossi, americani e internazionali, nei settori più diversi, dalle tecnologie all’abbigliamento, fino ai giocattoli. Tutti in fuga dai dazi: la guerra commerciale tra Washington e Pechino sta spingendo sempre più gruppi a ripensare le proprie catene di produzione e a ridimensionare la presenza in Cina. Tanto che anche un’eventuale tregua tra Washington e Pechino potrebbe lasciare in eredità troppa incertezza sul futuro per arrestare il processo.
L’elenco cresce di giorno in giorno: il 16 maggio la giapponese Ricoh ha annunciato di voler spostare da Shenzhen alla Thailandia tutta la produzione di stampanti per ufficio destinate agli Usa, «al fine di minimizzare l’impatto dei dazi». L’americanissima GoPro «prevede di spostare gran parte della produzione diretta agli Usa fuori dalla Cina», spiega Brian McGee, direttore finanziario dell’azienda di telecamere per dispositivi digitali. «In giugno cominceremo a produrre a Guadalajara, in Messico. L’obiettivo: proteggerci da possibili dazi e realizzare alcuni risparmi e maggior efficienza». Anche Universal Electronics (sensori e telecomandi) sta spostando i propri impianti in Messico.
Hasbro sta portando le proprie fabbriche di giocattoli negli Usa, in Messico e in India, con l’obiettivo di abbassare dal 70 al 60% la produzione in Cina. Le taiwanesi Aten International e AsuTek Computer stanno riportando in casa parte della lavorazione. Lo scorso mese, Sony ha chiuso un impianto di produzione di smartphone a Pechino per espandere le attività in Thailandia. La svedese Ericsson si sta preparando a traslocare parte della produzione dalla Cina agli Usa, Estonia, Brasile, Messico. La danese Danfoss (caldaie e apparecchi idraulici) punta sugli Stati Uniti.
Altri hanno cominciato a muoversi già dopo le prime salve di dazi, sparate nel 2018, come Cisco Systems e Sierra Wireless. Cisco nei giorni scorsi, in occasione della trimestrale, ha annunciato di aver drasticamente tagliato la produzione in Cina di tecnologia di rete.
L’amministrazione guidata da Donald Trump ha messo tra gli obiettivi dell’offensiva commerciale quello di spingere le multinazionali a far base, per la produzione, negli Usa. Su questo versante qualche risultato è arrivato. Harry Moser, di Reshoring.org, calcola che il rimpatrio di aziende dalla Cina «ha rappresentato già l’anno scorso il 59% della rilocalizzazione complessiva, aumentata del 38%». Ford ha cancellato piani di usare capacità produttiva inutilizzata in Cina per veicoli destinati al mercato Usa.
Non è però la regola: Man & Machine teme addirittura di dover tagliare parte dei posti di lavoro negli Usa. La maggior parte delle multinazionali guarda ai Paesi dove il costo del lavoro è basso: Cambogia, Vietnam, Filippine, India.
Il trasloco degli stabilimenti produttivi delle attività a minor valore aggiunto dalla Cina (anche di gruppi cinesi) non è cominciato con la guerra dei dazi. Il mercato del lavoro nella potenza asiatica si sta surriscaldando, i salari aumentano, la popolazione invecchia. Le retribuzioni medie sono salite di un terzo negli ultimi anni, a diecimila dollari l’anno per un operaio, contro duemila in Cambogia. La guerra commerciale ha però accelerato l’esodo. L’amministratore delegato di Bissel, Mark Bissell (aspirapolveri) stava già cercando alternative alla Cina a causa dei costi crescenti, ma i dazi lo hanno spinto a «bruciare le tappe». Discorso analogo per Samsonite: «Già prima dei dazi stavamo spostando dalla Cina tutto quello che potevamo». Steve Madden, nelle calzature, si trasferisce in Cambogia. Tiger Packaging vede nel suo futuro Malesia e Taiwan al posto di Pechino. Brooks Running, con i 644 milioni di fatturato nelle calzature atletiche vendute in 56 Paesi, ha deciso che è il momento di eliminare gran parte della presenza in Cina per puntare sul Vietnam. Entro fine anno, la società di Berkshire Hathaway sposterà lì ottomila posti di lavoro: il made in China scenderà al 10% della produzione, dal 45% attuale.
Sondaggi e statistiche fotografano questa trasformazione delle supply chain globali. Mukesh Aghi, Ceo dello Us-India Strategic Partnership Forum di Washington, ha indicato di aver ricevuto crescenti richieste di informazioni da 200 aziende Usa in cerca di sedi nel Subcontinente. Una ricerca di Ubs mostra che l’anno scorso, mentre la tensione sui dazi montava, il 37% di 200 gruppi manifatturieri orientati all’export aveva spostato in media il 30% della produzione fuori dalla Cina e un altro 33% programma di farlo nel 2019.
Molte aziende si aspettano ormai un clima di tensione “permanente”, che ne influenzerà le scelte anche in caso di accordi bilaterali. Per Steve Lamar, vicedirettore esecutivo della American Apparel and Footwear Association, «le sanzioni punitive ci perseguiteranno a lungo». Per Jacob Parker, vice direttore delle China operations allo US-China Business Council di Pechino, «le supply chain Usa continueranno a uscire dal Paese». Anche se modificare le catene di produzione e fornitura richiede tempi lunghi e Pechino resterà per decenni un hub mondiale. Apple sta spostando l’assemblaggio di iPhone di fascia alta in India, ma trovare alternative alla professionalizzata manodopera e alla logistica su cui può contare il suo fornitore per eccellenza, Foxconn, non sarà facile. L’anno scorso, un quarto del valore della produzione manifatturiera mondiale è stato generato dalla Cina, più della somma di Stati Uniti, Germania e Corea del Sud messi insieme. E per Mats Harborn, presidente della European Union Chamber of Commerce in Cina «il Paese resta un mercato chiave per l’Europa».
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