Le Borse festeggiano. Il presidente della Federal reserve, Jerome Powell, ha fatto capire di essere pronto a tagliare i tassi
di interesse nel caso in cui le tensioni commerciali dovessero comprimere l’attività economica. Non è stato esplicito, ma
nel momento in cui dichiara che la banca centrale è pronta ad agire in modo appropriato di fronte ai rischi di una guerra
commerciale, è chiaro che pensa a una riduzione del costo del credito.
Un dibattito aperto
La discussione è aperta, nel board della banca centrale Usa: il presidente della Fed di Dallas Robert Kaplan ha già precisato
di voler prendere tempo e di vedere se le tensioni possano recedere in un tempo ragionevole. L’argomento è in ogni caso in
agenda: tagliare i tassi per compensare i dazi è un’opzione sul tavolo. Eppure è un (classico) errore di politica monetaria
e segnala una sola cosa: la Fed è stata ormai catturata dal potere politico, dal desiderio esplicito di Donald Trump di avere
un costo del denaro più basso.
Politica monetaria impotente
Rispondere con un taglio dei tassi a una riduzione dell’attività economica sembra ragionevole. Non lo è, invece, in questo
caso. Gli effetti macroeconomici di un aumento delle tariffe non sono aggredibili con la politica monetaria. Le banche centrali
possono, al massimo, aiutare nella gestione della domanda, durante una recessione. L’aumento dei dazi costituisce invece
uno shock dell’offerta, un fenomeno completamente diverso.
L’esempio del caro-petrolio
I dazi - quelli imposti dagli Usa, ma soprattutto quelli introdotti come ritorsione dalla Cina - alterano in modo economicamente
ingiustificato i prezzi relativi, quelli dei beni sottoposti a tariffe rispetto agli altri. Hanno effetti microeconomici anche
intensi, ma non generalizzati, non coinvolgono necessariamente tutti i settori di un’economia. È una situazione opposta,
ma non del tutto dissimile - almeno al fine di capire cosa accade e come comportarsi - da quello che avviene nel caso di
un aumento del prezzo del petrolio, che risponde alla domanda e all’offerta globali, non certo a quella di una singola economia.
In questo caso, ovviamente, è un aumento dei tassi, e non un taglio, a essere spesso invocato.
Mantenere fermi i tassi
Avrebbe senso alzare i tassi di fronte al caro petrolio perché l’indice di inflazione aumenta? No, in linea di massima no,
perché si peggiorerebbe la situazione: ai maggiori costi dell’energia si aggiungerebbero i maggiori costi del credito. Avrebbe
senso abbassarli perché il rialzo del greggio può frenare la crescita? Ancora no, perché le pressioni inflattive derivanti
dal caro petrolio potrebbero essere amplificate dal taglio dei tassi e la situazione potrebbe sfuggire sotto controllo, con
una politica monetaria squilibrata.
Gli errori della Bce
Di fronte a shock di questo tipo - e in via generale - è meglio che la banca centrale non intervenga. A meno che non sia
chiarissimo che uno dei due effetti - quello sulla crescita o quello sui prezzi - non solo prevalga ma diventi davvero generalizzato.
Nel luglio 2008, con il greggio a 148 dollari il barile, la Bce si convinse che l’effetto sui prezzi stesse per diventare
generale e alzò preventivamente i tassi, commettendo un grave errore. Nel 2011 commise lo stesso errore, aggravando la crisi
fiscale da poco esplosa.
La Fed «catturata» dalla politica
L’errore di Powell è grossolano: la Bce, nel caso del rialzo del petrolio, ponderò a lungo la decisione e, pur sbagliando,
ritenne che ci fossero gli estremi per intervenire. Il presidente della Fed, invece, si è detto pronto a intervenire a prescindere
dal concreta situazione dell’economia Usa. È come un medico che di fronte a una malattia oncologica si dichiari pronto a somministrare
un antibiotico. Dà piuttosto l’idea che la richiesta di Trump di abbassare i tassi - anche per finanziare il deficit pubblico
- abbia catturato la banca centrale Usa.
Unica soluzione: abbassare i dazi
C’è un solo modo per ovviare alle incertezze e all’eventuale rallentamento economico derivante dall’introduzione dei dazi:
abbassare le tariffe e lavorare per alleviare le tensioni. Politicamente non è un’opzione perché Trump non farà passi indietro,
convinto della bontà di questa strategia negoziale (ed elettorale), ma è l’unica cosa economicamente sensata.
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