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L’occupazione Usa frena bruscamente a maggio, ostacolata dalle guerre commerciali

NEW YORK - Le aziende americane, prese in contropiede dall’indebolimento dell’economia globale e dalle ombre su quella americana aggravate dalla spirale delle guerre commerciali, hanno tirato il freno sulle assunzioni: in maggio hanno creato 75.000 nuovi posti di lavoro. È stato il 104esimo mese positivo consecutivo per il mercato del lavoro, ma ha rappresentato una delusione rispetto a attese medie di 180.000 impieghi e un brusco rallentamento rispetto ai due mesi precedenti. I quali, oltretutto, hanno a loro volta subito revisioni al ribasso (pari a 75.000 buste paga meno delle stime orginali).

La disoccupazione americana resta molto bassa, invariata al 3,6%, una soglia vicina ai minimi da mezzo secolo. Le nuove battute d’arresto sul mercato del lavoro, finora uno degli indicatori più ottimisti dell'espansione, si sono però rispecchiate anche in altri dati, quelli sui salari: sono lievitati su base annuale del 3,1%, l’ottavo mese sopra la soglia del 3% ma la percentuale ha deluso le attese ed è stata incapace di evidenziare significative e sperate ulteriori accelerazioni (anzi, in aprile l’aumento era stato maggiore, del 3,2%).

La partecipazione alla forza lavoro, da tempo vicina a minimi storici, è a sua volta rimasta stagnante al 62,8% dopo aver in passato mostrato miglioramenti.
Una debolezza e cautela particolare da parte delle imprese è affiorata nello strategico comparto manifatturiero, che sta risentendo di accresciuta fragilità su scala globale: negli Stati Uniti sono stati creati qui solo tremila nuovo occupati il mese scorso. Questo e altri comparti risentono dell’escalation dei dazi fatta scattare dal presidente Donald Trump: nell’ultimo mese la Casa Bianca ha alzato le sanzioni contro 200 miliardi di dollari di import cinese al 25% dal 10%, mossa seguita da rappresaglie di Pechino su 60 miliardi di made in Usa. E da lunedì, se non ci saranno ripensamenti o accordi in extremis, dovrebbe far scattare dazi iniziali del 5% contro 350 miliardi di import dal Messico.

Le previsioni sull’andamento del Pil statunitense nel secondo trimestre, in simili condizioni, sono state ormai ridimensionate da numerosi analisti per tener conto della fremata in corso: Macroeconomics Advisers stima che la crescita tra aprile e giugno si arresterà all'1,6%, quasi dimezzata rispetto al primo scorcio del 2019. Questo non impedirà all'espansione americana di raggiungere il traguardo del primato di longevità il mese prossimo, superando di slancio i dieci anni di durata, ma mette sotto inedita pressione la Federal Reserve per considerare un taglio dei tassi di interesse a sostegno dell'economia nei prossimi mesi.

Il chairman della Fed Jerome Powell, dopo aver invocato a lungo un atteggiamento cauto in attesa di chiarimenti sui dati, ha già aperto a una simile prospettiva nei giorni scorsi. Segnali simili sono giunti da altri esponenti di rilievo dei vertici della Banca centrale. I mercati scommettono adesso su un primo taglio fin dall’estate e su molteplici riduzioni del costo del denaro entro fine anno, anche se probabilmente non al prossimo meeting del Fomc il 18 e 19 giugno. Qualche analista, però, non esclude neppure una simile ipotesi: RSM Us ha definito una riduzione dei tassi fra dodici giorni “in gioco” sull’onda dei dati occupazionali. Proprio simili puntate su interventi “salvifici” della Fed hanno spinto in apertura di seduta gli indici di Wall Street in rialzo. Le statistiche sul lavoro, di sicuro, dovrebbero quantomeno confermare l’atteggiamento disponibile a futuri stimoli delineato da Powell e dai suoi collaboratori, tanto più che oltreoceano l’europea Bce ha appena offerto indicazioni che a sua volta è impegnata a dar corso a nuove manovre di sostegno alla crescita.

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