A poco più di due anni dall’entrata in vigore del contratto a tutele crescenti, l’interpretazione che i giudici hanno dato delle disposizioni del Dlgs 23/2015 nei contenziosi mette in luce orientamenti divergenti, ad esempio sull’onere della prova dell’insussistenza del fatto nei licenziamenti disciplinari. Vediamo dunque come si sono pronunciati i giudici di merito.
L’onere probatorio
Un punto cruciale riguarda l’onere probatorio nei licenziamenti disciplinari delle aziende con più di 15 dipendenti e, in particolare, il significato da attribuire all’articolo 3, comma 2 del Dlgs 23/2015: in base a questa norma, solo nelle ipotesi di licenziamento per motivi disciplinari in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato - rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento - il giudice condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria.
Un recente sentenza del Tribunale di Milano ha ordinato la reintegrazione di una dipendente, per mancata prova dei fatti a lei addebitati, offrendo questa interpretazione della norma: «Poiché il Dlgs 23/2015 non è espressamente intervenuto sull’onere della prova in caso di licenziamento, si ritiene che sia ancora in vigore anche per i licenziamenti soggetti a tale disciplina l’articolo 5 della legge 604 del 1966 a norma del quale l’onere della prova della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento spetta al datore di lavoro (...). Si ritiene sufficiente che il Giudice, valutati gli atti e i documenti di causa prodotti da entrambe le parti, possa ritenere che il fatto materiale sia insussistente». (Tribunale di Milano, sezione lavoro, sentenza del 29 maggio 2017). Nello stesso senso si è espresso il Tribunale di Lodi, sezione lavoro, sentenza 34 del 16 febbraio 2017 ).
In direzione opposta, invece, il Tribunale di Napoli ha affermato che il Dlgs 23/2015 offre un differente grado di tutela, nel senso che se il dipendente intende beneficiare della maggior tutela (reintegrazione) dovrà premurarsi di offrire elementi di prova che dimostrino l’insussistenza del fatto addebitato (Tribunale di Napoli, sezione lavoro, 27 giugno 2017). Questa seconda interpretazione sembra più rispondente al dettato letterale dell’articolo 3, comma 2 del Dlgs 23/2015 e alla sua ratio, che prevede la reintegrazione come sanzione eccezionale in caso di illegittimità del licenziamento.
La previsione legislativa dovrebbe quindi essere interpretata nel senso che, se il datore non riesce a dare piena prova delle motivazioni alla base del licenziamento, la sanzione applicabile è quella indennitaria. Solo nell’ipotesi in cui il lavoratore riesca a dimostrare la completa inesistenza del fatto contestato, il datore dovrebbe essere condannato a reintegrarlo nel posto di lavoro. D’altronde, solo il dipendente ricorrente potrebbe avere interesse a dimostrare l’insussistenza del fatto contestato, con la conseguenza che questo onere dovrebbe essere necessariamente a suo carico.
Il licenziamento ritorsivo
Il Dlgs 23/2015 (all’articolo 2) ha mantenuto ferma la regola della tutela reintegratoria, in tutti i casi in cui sia provato che il licenziamento è discriminatorio, o riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge, eliminando l’inciso del motivo illecito determinante. Si è posto quindi il dubbio se possa continuare a trovare applicazione la tutela reale forte ai casi di licenziamento ritorsivo. Le prime pronunce dei tribunali sembrano aver dato una risposta affermativa (Tribunale Roma, sezione lavoro, sentenza 4157 del 24 giugno 2016).
Inidoneità alla mansione
In caso di licenziamento per inidoneità alla mansione, non è chiaro se debba applicarsi l’articolo 3 (che punisce la mancata dimostrazione del motivo oggettivo di licenziamento con la tutela indennitaria) o l’articolo 2 (che punisce il difetto di giustificazione del licenziamento per motivo consistente nella disabilità del lavoratore con la reintegrazione).
Una recente sentenza del Tribunale di Milano ha applicato proprio la reintegrazione al licenziamento di una dipendente per inidoneità fisica (non connessa a disabilità), poiché il datore non aveva provato l’impossibilità di ricollocarla in altre mansioni, quale alternativa al licenziamento (Tribunale di Milano, sezione lavoro, 23 giugno 2017).
Sembrerebbe preferibile, invece, che il licenziamento per sopravvenuta inidoneità fosse ricondotto all’ipotesi prevista dall’articolo 3 (tutela indennitaria), nel momento in cui l’inidoneità non discenda da una disabilità in senso tecnico.
È auspicabile che questi dubbi siano chiariti dal legislatore. Nel frattempo, si attende il giudizio della Corte costituzionale sulle norme del contratto a tutele crescenti, dopo il rinvio operato dal Tribunale di Roma a luglio. Per il giudice, il contrasto con gli articoli 3, 4, 35, 117 e 76 della Costituzione si deve ravvisare non per l’eliminazione della tutela reintegratoria, ma rispetto alla disciplina concreta dell’indennità risarcitoria che, nel compensare solo per equivalente il danno ingiusto subito dal lavoratore, è destinata a prendere il posto del risarcimento in forma specifica costituito dalla reintegrazione, e dunque avrebbe dovuto essere più consistente e adeguata (Tribunale di Roma, sezione lavoro, ordinanza del 26 luglio 2017).
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