Quando si viene condannati per guida in stato di ebbrezza grave o sotto effetto di droga, la patente viene revocata. Fino al 2010, non era un gran problema: “bastava” rifare tutte le pratiche e gli esami per ottenere una nuova licenza di guida, come un neopatentato qualsiasi. Dal 2010, è stato introdotto un periodo di tre anni in cui non ci si può ricandidare a guidare. Ma come si contano questi tre anni? Sulla questione si sono espressi, in modo diverso, tanti giudici. Adesso arriva anche la Cassazione. Che sceglie l’interpretazione più sfavorevole all’imputato.
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La Corte ha stabilito che i tre anni non partono dalla data in cui quella vecchia è stata ritirata, ma dal passaggio in giudicato della sentenza che dispone la sua revoca. Così è scritto nella sentenza 13508/2019, depositata della Seconda sezione civile il 20 maggio.
In termini giuridici, si trattava di interpretare che cosa intenda il comma 3-ter dell’articolo 219 del Codice della strada,
che dal 2010 evita che chi subisce la revoca della patente come sanzione per gravi infrazioni possa subito avviare le pratiche
per rifare gli esami e ottenerne un’altra. Nei casi di alcol con rilevanza penale o droga, la norma dispone che debbano passare
almeno tre anni «dalla data di accertamento del reato».
Ma il reato s’intende accertato già alla data in cui è stata commessa l’infrazione (e quindi è stato eseguito il test) o al momento in cui diventa definitiva la condanna? Nel primo caso, il periodo di sospensione cautelare della patente disposta dalla Prefettura subito dopo l’infrazione conta ai fini del calcolo dei tre anni. Nel secondo caso, che corrisponde alle interpretazioni del ministero delle Infrastrutture già nel 2015 fa in base a un’ordinanza del Tribunale di Firenze, non conta e il calcolo parte da quando il processo finisce e viene notificata la revoca della patente.
Secondo la Cassazione, la revoca è cosa diversa dalla sospensione cautelare e non può essere considerata esistente prima della sentenza. È quindi «un atto ad efficacia istantanea adottabile dall’autorità amministrativa» solo dopo il passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna. E il comma 3-ter non si riferisce alla revoca pronunciata dal giudice penale, per cui quando parla di accertamento non intende «disciplinare la decorrenza dei suoi effetti».
Il risultato pratico è che, con l’interpretazione data dalla Cassazione, l’imputato resta a piedi per più tempo: il periodo di sospensione cautelare va sommato con i tre anni di divieto di conseguire una nuova patente. E la sospensione cautelare può protrarsi anch’essa per anni, visto che segue la tempistica del processo penale.
Finora sulla questione si erano pronunciati vari giudici amministrativi e ordinari, con esiti discordanti. L’interpretazione più favorevole all’imputato era stata data già nel 2010 dall’ufficio del Massimario della stessa Cassazione ed era stata seguita da vari Tar (tra cui quello del Veneto, sentenza 393/2016) e Tribunali (tra cui di recente quello di Bologna, ordinanza 11901/2018). Ma ora la Cassazione dà più peso all’orientamento contrario.
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