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Questo articolo è stato pubblicato il 25 maggio 2013 alle ore 08:20.

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È un ritorno al passato, quasi il simbolo feticista di una terra, il Veneto, che nel dubbio sceglie di rifugiarsi nel piccolo mondo antico di quel che è sopravvissuto della balena democristiana e leghista.
Le elezioni comunali di domenica a Vicenza e Treviso, le roccaforti del manifatturiero e dell'export, sono come un film in bianco e nero che celebra la cesura tra società politica e società civile, una volta racchiusa nella triade aurea di famiglia, chiesa e fabbrichetta. Quel capitale sociale si è andato via via assottigliando, ma gli eredi di Piccoli, Rumor e Bisaglia continuano a contendersi il potere come se il dato anagrafico fosse un dettaglio.

L'esempio più eclatante è l'amato-odiato imbalsamatore di Treviso, Giancarlo Gentilini, che alla maniera di Alfred Hitchcock (le rotondità sono simili) ha fatto tappezzare la città del suo profilo senza slogan elettorali. Come dire: basta un tratto di matita per distinguere il vero Genty o SuperG, come lo chiamano i trevigiani, dai volgari imitatori. Tutto il resto pare non contare. Che governi ininterrottamente da 20 anni, che abbia festeggiato 83 primavere, che le scelte strategiche della città compiute sotto la sua reggenza, al di là di marciapiedi in ordine e fioriere rigogliose, si siano rivelate prive di visione. «Esigo e ribadisco!» sono le parole con le quali Gentilini si esprime in modo marziale quando pretende, e di solito ottiene, qualcosa.

Pure lui come Silvio Berlusconi, un personaggio metapolitico, una sorta di nonno stravagante di cui non si dice se ha fatto bene o male ma "sei con lui o contro di lui?". Il socio occulto di Genty-Hitchcock è il suo coetaneo e collega Dino De Poli (entrambi sono stati dipendenti di Cassamarca), riconfermato presidente della fondazione bancaria trevigiana, incarico che conserverà fino all'età di 90 anni. I tempi d'oro sono un ricordo sbiadito e le casse prosciugate: solo sei anni fa la fondazione poteva contare su un miliardo di patrimonio dilapidato per fondare un'università stritolata da quelle più blasonate di Padova e Venezia. Dell'umanesimo latino, la stella polare di De Poli, sono rimaste solo le scorribande gastronomiche in giro per il Nord-Est, che il banchiere continua a concedersi con il suo fido autista, alla guida di una modesta Audi A8 al posto della monumentale Jaguar.

Questa volta ci sono due contendenti di peso (l'ex assessore Beppe Mauro e l'imprenditore del caffè Segafredo Massimo Zanetti) e non è escluso che possa avvantaggiarsene il Pd.
A Vicenza corre la sfidante Manuela Dal Lago, 68 anni, pure lei bossiana ortodossa e vecchia conoscenza leghista: deputata, pluripresidente della Provincia con un passaggio a capo della ricchissima Brescia-Padova, società autostradale di cui ai tempi delle vacche grasse comprò la quota di maggioranza con i soldi dei vicentini. Da giovane fu liberale allevata da Giovanni Malagodi, e nel consiglio comunale della Loggia del Capitaniato, in piazza dei Signori, sedeva a qualche scranno di distanza dall'attuale sindaco Achille Variati, allora giovane esponente democristiano di belle speranze, ora piddino dopo una lunga trasmigrazione Ppi-Margherita-Ulivo e battezzato per la prima volta sindaco di Vicenza a 37 anni.

Variati ha giocato la carta turismo dopo la laboriosa ristrutturazione della basilica palladiana, durata cinque anni. La città disegnata dall'architetto padovano dovrebbe essere meta di una processione ininterrotta di visitatori. Così non è, e il successo della mostra "Raffello verso Picasso", con 274mila visitatori, ha fatto gridare al miracolo.
Piccoli fuochi e vecchie vendette: il sindaco è criticato per le modeste compensazioni ottenute dagli americani dopo il raddoppio del Dal Molin; rancori covano anche a destra, con l'ex governatore Giancarlo Galan, alleato della Dal Lago, che ha assicurato alla Lega un sostegno "rigorosamente" simmetrico a quello che cinque anni fa i lumbard riservarono alla forzista ed ex socialista Amalia Sartori, sconfitta dal primo cittadino in carica per meno di 600 voti. Furono i voti leghisti a mancare? La sentenza alle urne e al probabilissimo ballottaggio.

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