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Lettera di Putin agli americani: «Pericoloso essere…

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la crisi siriana

Lettera di Putin agli americani: «Pericoloso essere eccezionali». Rabbia e stupore sul web

L'11 settembre è l'anniversario dell'attacco alle Torri Gemelle di New York; il 15 settembre 2008 scoppia con una scena da film - scatoloni portati via dalla banca Lehman Brothers - la crisi dei mutui subprime che due mesi dopo porterà il primo afroamericano alla Casa Bianca. L'11 settembre 2013, il New York Times, voce liberal d'America, l'unico giornale rimasto in mano a una famiglia di fede democratica quindi vicina a Barack Obama, pubblica un commento del presidente russo Vladimir Putin sulla crisi in Siria, mentre i capi della diplomazia dei due Paesi, John Kerry e Serghei Lavrov, discutono a Ginevra i dettagli dello smantellamento dell'arsenale chimico siriano. Le date sono una coincidenza ma l'editoriale dal titolo «La Russia chiede cautela» non sta passando inosservato nell'America in maggioranza contraria all'intervento militare secondo tutti i sondaggi (in media il 60 per cento), ripiegata sui suoi guai economici ma non indifferente all'idea che del mondo ha un ex ufficiale del Kgb. Se Putin voleva attirare l'attenzione degli americani, ha fatto un buon lavoro, nota Cnn. Un piccolo shock.

Colpisce in particolare una frase alla fine dell'articolo: «È estremamente pericoloso incoraggiare le persone a vedersi eccezionali, qualunque sia il motivo», considerazione sull'eccezionalismo americano inteso come scelta di intervenire per difendere la libertà nel mondo, riferito a un passaggio del discorso di Obama di due giorni fa: «L'America non può essere il poliziotto del mondo ma deve agire in alcune situazioni, è questo che ci rende eccezionali, con umiltà ma con risolutezza, è ciò che non ci fa mai perdere di vista la verità». Putin precisa che questo approccio americano non tiene conto del fatto che vi sono Paesi piccoli e grandi, ricchi e poveri, alcuni di consolidata democrazia, altri che stanno cercando la strada per arrivarci, le politiche dunque cambiano da paese a paese. Un discorso in teoria condivisibile se scritto dal presidente di una democrazia compiuta, che colpisce, irrita, crea sconcerto se arriva dalla Russia.

Il senatore democratico Robert Menendez, capo della Commissione Esteri del Senato, che solo una settimana fa aveva detto sì a una bozza bipartisan all'intervento, dice che dopo aver letto l'articolo gli è venuto da vomitare. Un funzionario della Casa Bianca minimizza, considera le proteste «irrilevanti» ribattendo che la cosa più importante è che Putin è impegnato nello smantellamento dell'arsenale chimico siriano. «In gioco c'è la credibilità di Putin», assicura il portavoce della Casa Bianca, Jay Carney. Intanto però, sul sito del New York Times, i commenti all'editoriale sono più di mille in poche ore; a tratti diventa un dibattito sull'identità americana, ammesso che ve ne sia solo una. Yoshi da Washington sintetizza: «Molti commenti sono simili, in pratica dicono: mi piace quello che ha scritto Putin ma magari ha altri motivi per farlo. Ma perché? il nostro presidente non potrebbe essere lo stesso? Perché ai discorsi di Obama crediamo e non dovremmo credere a Putin?»

I più avvertiti twittano le contraddizioni: il giornalista John Podhoretz «Un uomo che ha fatto due interventi militari in Georgia e Cecenia senza chiedere niente all'Onu ci viene a dire che le guerre sono illegali?». Kristopher Wells, professore associato all'University of Alberta: «nella sua lettera Putin conclude "Dio ci ha creati uguali", immagino abbia già dimenticato i gay e la legge russa che li discrimina». Sempre su Twitter Sarah Rumpf consulente politico, avvocato, blogger di Austin, coglie una parte di verità: «Hey Putin, la prossima volta che vuoi scrivere una lettera all'America per convincerla di qualcosa, puoi evitare di dire che non siamo eccezionali?»

Il New York Times è anche il giornale di New York, città che ama la polemica e ne crea di tutte sue, alcune quasi impresentabili. Mentre seri studi demografici disegnano un paese in cui i bianchi saranno minoranza entro trent'anni (in California la cosa è già visibile, lo spagnolo affianca l'inglese ormai ovunque), in queste ore il candidato democratico a sindaco Bill De Blasio, italoamericano con moglie nera e figlio Dante - riedizione di Willis, fratello di Arnold, telefilm con due bambini neri adottati da una ricca famiglia bianca di Manhattan nell'America anni 80 di Reagan - è accusato di essere un «razzista» dal sindaco Bloomberg perché userebbe sfacciatamente la sua famiglia melting pot, ne farebbe così motivo di vanto da sembrare quasi che l'obiettivo è prendere voti. L'eccezionalità insomma è discutibile, questione di punti di vista, motivo di lite, ma fra americani.

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