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Questo articolo è stato pubblicato il 14 luglio 2014 alle ore 18:04.
L'ultima modifica è del 14 luglio 2014 alle ore 19:07.

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È morta Nadine Gordimer. Era malata da tempo. Era nata il 20 novembre 1923 da un gioielliere ebreo di origine lituana e da madre ebrea inglese, a Springs, un sobborgo di Johannesburg, nel Transvaal.

Insieme a Alan Paton, a Dan Jacobson (morto anche lui quest'anno) e a Jack Cope, la Gordimer faceva parte di quel gruppetto di scrittori che segnalarono al mondo, più di mezzo secolo fa, la nascita di una letteratura sudafricana moderna.

Nel 1991 vinse il premio Nobel al culmine di una carriera che l'aveva vista – lei, piccola e minuta – come uno dei più combattivi avversari dell'apartheid. Ricordo di averla brevemente incontrata a Londra, in occasione di un convegno sugli scrittori del Commonwealth, nel 1998, e di averle chiesto se avesse mai sofferto di persona a causa della discriminazione razziale allora esistente: «No», fu la sua risposta . Ma subito aggiunse: «No. O almeno ne ho sofferto così poco che non vale la pena di parlarne, in confronto a quello che è toccato ai neri. Però i miei libri per un po'sono stati messi al bando dalle autorità politiche, cosa molto sgradevole per qualsiasi scrittore».

Tra le sue opere, quasi tutte pubblicate in Italia da Feltrinelli a partire dal 1961 con, sono da ricordare in special modo Un mondo di stranieri, Occasione d'amore, Un ospite d'onore e Il conservatore (che le valse il Man Booker Prize 1974), a cui si devono aggiungere Luglio, Una forza della natura e Storia di mio figlio, fino al recentissimo Racconti di una vita, uscito pochi mesi fa.

Per sintetizzare nel giro di un paio di frasi il senso e la qualità della sua opera, al di là delle nobili intenzioni di carattere civile e politico, si leggano le sue stesse parole: «I miei racconti nascono da quella che può essere definita la coda di un evento colta nel momento in cui sguscia via e scompare alla vista. Può trattarsi di uno sguardo, di una frase catturata a mezz'aria…». Non a caso, anche negli anni difficili, in cui la Gordimer dichiarava che «in Sudafrica non si poteva amare» e che persino l'idea di amore fraterno era un sofisma, per cui molti erano ridotti «a pensare di potersi dare solo all'amore fisico che non si può contraffare e non ha nessuna maschera», fu sempre l'esempio di Marcel Proust – l'idea stessa della unicità e individualità dello scrittore, con le sue idee e le sue sensazioni irripetibili – a guidare la sua mano sulla macchina per scrivere.

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