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Questo articolo è stato pubblicato il 30 luglio 2014 alle ore 08:23.
L'ultima modifica è del 30 luglio 2014 alle ore 08:57.

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«L'Arizona non perderà un solo dollaro», diceva a John McCain, senatore americano di quello Stato e grande sostenitore delle sanzioni contro Putin, il presidente dell'annuale Conferenza di Monaco di Baviera sulla sicurezza, Wolfgang Ischinger.

La battaglia per i princìpi della democrazia per McCain è a costo zero. Sono invece 6.200 (ricordava Ischinger nel febbraio scorso) le aziende tedesche che fanno affari in Russia. Argomenti inoppugnabili a favore della moderazione, con i quali anche l'Italia si trova d'accordo per scelta politica e numero d'imprese. Ma l'anno scorso l'interscambio Usa con Mosca è stato di 26 miliardi di dollari e quello Ue di 440 miliardi.

Questo non è solo un grande vantaggio economico: comporta degli oneri e dei doveri di natura morale. Cioè una grande capacità d'influenzare la Russia più di quanto Putin influenzi gli europei.

Soprattutto dopo che un aereo civile è stato abbattuto dai ribelli filo-russi di Ucraina e che l'incidente probabilmente verrà giudicato come crimine di guerra; dopo che si accumulano le prove su quanto i ribelli siano controllati dalla Russia e sulle armi letali che continuano a ricevere. Sembra sempre più chiaro che Vladimir Putin non voglia risolvere il problema ma cerchi solo di guadagnare tempo. Ora che sotto i giubbotti antiproiettile gli ucraini combattono in maglietta, il problema delle forniture di gas è solo sullo sfondo. Ma ancora tre mesi e arriverà il freddo, dopo altri due il gelo. Come il maresciallo Kutuzov con Napoleone e Stalin con Hitler, anche Putin confida nel Generale Inverno per sconfiggere l'ennesimo nemico della Russia. Sulla questione ucraina, come in altri scacchieri internazionali, cresce la facile tendenza a dare colpe e responsabilità agli americani: allargando la Nato avevano ignorato le ragioni dei russi e ora impongono sanzioni economiche pericolose e, per loro, dai rischi limitati. È abbastanza vero ed è anche vero che il confronto globale e quello riapparso d'improvviso ieri sugli arsenali missilistici, è fra Stati Uniti e Russia. Ma le politiche della Ue e dei singoli Paesi più importanti del continente, da anni fanno di tutto per ignorare una realtà scomoda: la Crisi ucraina, figlia dell'irrisolta democratizzazione della Russia post-sovietica, è un problema europeo.

Il caos balcanico ha incominciato ad essere ricomposto quando la Serbia è diventata democratica. Esteso alla stabilità di un intero continente, la Russia ha la stessa necessità. Sotto qualsiasi regime, anche liberale, la Russia si percepirà sempre come una grande potenza: ma con un gigante democratico sarebbe molto più facile parlare. Per quante ragioni potesse avere, annettendo la Crimea Putin ha messo in discussione un fondamento per il quale il secolo scorso l'Europa ha combattuto due guerre devastanti: il divieto di cambiare le sue frontiere con la forza. Anche gli europei più favorevoli all'appeasement capiscono l'intenzione di Putin di mantenere l'instabilità ucraina per impedire a Petro Poroshenko di fare le sue riforme fino a che l'inverno farà la sua parte. La Politica Europea di Vicinato fu concepita nel 2004. Solo nel 2009 è stata aggiunta l'Iniziativa per la partnership orientale con i Paesi più vicini all'influenza e alle mire russe. Fu un parto difficile e ancora più complicato fu trovare sponsor autorevoli come la Germania, la Francia o l'Italia. Furono i polacchi a spingere, nella speranza di avere qualche altro Paese fra loro e la Russia. Scambi economici e realpolitik sono strumenti importanti della convivenza pacifica ma in loro nome non possiamo negare ad altri europei il diritto a un futuro di libertà.

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