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Questo articolo è stato pubblicato il 17 agosto 2014 alle ore 19:03.
L'ultima modifica è del 18 agosto 2014 alle ore 09:16.

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Come si mantiene il Califfato e che possibilità ha di vincere? A questa domanda ha provato a rispondere il giornalista palestinese Maydan Dairieh che per tre settimane ha girato in Siria un documentario vivendo con i jihadisti dello Stato Islamico (Is). «Forse la sequenza nel mio film che colpisce di più è quando uno di loro, che si fa chiamare il Belga, chiede al figlio di dieci anni cosa preferisce tra la Jihad e un attentato suicida. "La Guerra Santa contro gli americani e gli infedeli", risponde il bambino. Il Califfato è questo: punta sulle future generazioni, è l'investimento forse meno visibile sui campi di battaglia ma il più preoccupante».

Il Califfato è l'erede di al-Qaeda ma ha raggiunto successi che neppure Bin Laden poteva immaginare dopo l'11 settembre. Ha una base di massa tra i sunniti in Siria e in Iraq, è riuscito a infilarsi nel vuoto lasciato dalle grandi potenze, sfruttando la guerra per procura che si stanno facendo Iran, Turchia, Arabia Saudita e monarchie del Golfo, e oggi controlla un terzo della Siria, un terzo dell'Iraq e si sta affacciando Libano. Ha creato un nuovo Afghanistan che dal cuore del Medio Oriente lambisce le coste del Mediterraneo.

Ma ormai lo Stato Islamico è anche una mini-potenza economica. La sua brutalità medioevale è leggendaria: decapitazioni e crocifissioni servono a spingere intere città ad arrendersi senza combattere. Eppure c'è un livello di sofisticazione senza precedenti in un movimento jihadista: come la brochure online denominata Stato di Aleppo, "Wilaiat Halab", a metà tra il manifesto ideologico, quello turistico e un survey dedicato alla raccolta di investimenti. Densa di infografica e di foto di vita sociale, campi di grano, ragazzi sorridenti, non menziona le usuali atrocità ma fa un bilancio dell'attività del Califfato nella zona: si descrivono i tribunali islamici, i servizi di base, la distribuzione di cibo e acqua, le 20 scuole dedicate alla sharia con oltre 2.500 alunni. Insomma si dà conto di come vengono impiegati i denari dei contributi versati allo Stato islamico a una popolazione (si afferma) di 1,2 milioni di persone. Contribuite, sono soldi ben spesi, è il messaggio.

Il network internazionale che sfrutta il web è secondo Dairieh la fonte più importante di propaganda: dalla rete affluiscono le donazioni del mondo arabo-musulmano e dei simpatizzanti che vivono in Europa e in Occidente.

Il Califfato, secondo gli americani, è dotato di enormi risorse finanziarie: «Sono la più ricca organizzazione di jihadisti di sempre», ha sentenziato il Washington Institute nel giorno in cui si è scoperto che l'Is aveva messo le mani su 425 milioni di dollari custoditi nella filiale della Banca centrale di Mosul. Ma qualche giorno fa Talal Ibrahim, direttore della Union Bank of Iraq, ha dichiarato che neppure un centesimo sarebbe uscito dalla filiale mentre i jihadisti avrebbero continuato a distribuire i salari ai dipendenti pubblici.

Gli unici dati certi provengono da un colpo di fortuna messo a segno due giorni prima della caduta di Mosul quando è stato arrestato un corriere del Califfato, Abu Hajar, al quale sono stati sequestrate 160 chiavette con la contabilità e informazioni dettagliate sui militanti. Da questo materiale emerge che lo Stato Islamico dispone di 875 milioni di dollari in contanti e asset vari. A differenza di altri gruppi islamici rivali che combattono in Siria come Jabat al Nusra, sostenuta apertamente da Arabia Saudita, Qatar e monarchie del Golfo, il Califfato non dipende per la sua sopravvivenza dall'estero. I soldi da fuori arrivano ma non sono vitali.

Oltre a praticare saccheggi, riscossione di tasse rivoluzionarie, estorsioni e rapimenti, nel territorio sotto il suo controllo il Califfato ha organizzato una raccolta di denaro che può essere paragonata al pagamento delle tasse: a Raqqa, per esempio, si paga una zakat (tassa religiosa) del 10% sui redditi, una pressione fiscale vantaggiosa rispetto alla media. Il Califfato poi ha cominciato a vendere l'elettricità allo stesso governo siriano, al quale aveva già sottratto dighe e centrali elettriche, e ha messo in piedi un sistema per esportare il petrolio dai pozzi di Deir Ez Zhor. Questo commercio rende milioni di dollari al giorno.

I soldi servono a pagare i miliziani che guadagnano meglio dei ribelli siriani più moderati, dei soldati di Bashar Assad e delle evanescenti forze armate irachene: in media 700 dollari al mese. Sono essenziali anche per mettere a segno le avanzate militari. Lo Stato Islamico in Siria sta cooptando i gruppi moderati che si dimostrano sempre più vulnerabili.

Ma l'aspetto più interessante è che con il Califfato trattano anche gli Stati. Lo fa il governo di Assad ma anche la Turchia di Erdogan che deve riportare a casa 50 turchi, tra cui il console di Mosul, sequestrati dai jihadisti. Ankara ha stretto i rubinetti che alimentano le dighe del Califfato sull'Eufrate, il portavoce dello Stato Islamico ha minacciato di occupare Istanbul e il ministro delle acque turco, Veysel Eroglu, ha risposto che la Turchia «potrebbe perdere la pazienza». Un linguaggio più da cancelleria ottomana che da Paese membro della Nato.

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