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Questo articolo è stato pubblicato il 19 settembre 2014 alle ore 13:09.
L'ultima modifica è del 20 settembre 2014 alle ore 09:57.
«A quei sindacati che vogliono contestarci io non chiedo di darci almeno il tempo di presentarci le proposte prima di fare le polemiche, ma chiedo "dove eravate in questi anni, quando si è prodotta la più grande ingiustizia che ha l'Italia?". L'ingiustizia tra chi il lavoro ce l'ha e chi il lavoro non ce l'ha, tra chi ce l'ha a tempo indeterminato e chi è precario e soprattutto chi non può nemmeno pensare a costruirsi un progetto di vita perché si è pensato soltanto a difendere le battaglie ideologiche e non i problemi concreti della gente. Sono i diritti di chi non ha diritti quelli che ci interessano e noi li difenderemo in modo concreto e serio».
Alla fine Matteo Renzi rompe gli indugi, e con l'insolito strumento del video sul sito del partito dichiara di fatto guerra ai sindacati, e in particolare alla Cgil di Susanna Camusso, sul piede della mobilitazione generale contro le ipotesi di superamento dell'articolo 18 per i neoassunti. E non a caso la "discesa in campo" del premier contro i sindacati avviene nello stesso giorno in cui la sinistra del Pd alza i toni dello scontro. È il vecchio "cordone sanitario" che Renzi vuole spezzare, parlando direttamente agli italiani e ai lavoratori meno garantiti. Poco prima Camusso lo aveva paragonato a Margaret Thatcher («ci sono analogie fra il modello di Renzi e quello della Thatcher, accomunati dall'idea che è la riduzione dei diritti dei lavoratori lo strumento che permette di competere»). E il paragone certo non è piaciuto al segretario del Pd, che ha tra i suoi riferimenti ideali e storici il leader laburista Tony Blair. «Quando si parla di lavoro noi non siamo impegnati in uno scontro del passato ideologico – risponde Renzi –. Noi non siamo preoccupati di Margaret Thatcher, siamo preoccupati di Marta, 28 anni, che non ha la possibilità di avere il diritto alla maternità. Lei sta aspettando un bambino ma, a differenza delle sue amiche che sono dipendenti pubbliche, non ha nessuna garanzia perché in questi anni si sono creati cittadini di seria A e di serie B».
Sul fronte interno al Pd si affilano intanto le armi per la battaglia parlamentare. L'obiettivo del governo e di Renzi è di arrivare al via libera del Senato al Jobs act entro il vertice europeo dell'8 ottobre. Martedì mattina torneranno a riunirsi in assemblea i senatori democratici, e il giorno prima i bersaniani si vedranno sempre a Palazzo Madama per scrivere gli emendamenti da presentare all'attenzione del gruppo. Una valanga di emendamenti, annuncia l'ex leader del Pd Pier Luigi Bersani, ormai deciso a mettersi alla testa di questa battaglia. «Saranno presentati molti emendamenti - annuncia Bersani -, e non solo sull'obbligo di reintegro in caso di licenziamento ingiusto. Qui andiamo ad aggiungere alle norme che danno solo precarietà ulteriore precarietà, andiamo a frantumare i diritti». In una prima riunione tenutasi ieri mattina i senatori della minoranza Pd hanno deciso che verranno presentati emendamenti secondo due linee guida: la prima per precisare che la pienezza della tutela comprende il reintegro, la seconda per delimitare l'utilizzo dei voucher, come anticipa Cecilia Guerra. Ma il punto non è più la qualità o la quantità degli emendamenti, non solo. Il punto è la stessa sopravvivenza del Pd così come lo conosciamo. Tra le altre cose Bersani dice anche che «a tirare troppo la corda alla fine la corda si spezza, frase che sembra evocare addirittura una scissione. Non siamo ancora a questo punto, ma ormai è chiaro che l'ex leader vuole arrivare fino in fondo a questa battaglia. E fino in fondo, traducono i bersaniani di stretta osservanza, significa bloccare il Jobs act in Parlamento, anche a costo di fare ostruzionismo. L'obiettivo sembra essere quello di alzare l'asticella a tal punto da costringere Renzi ad una clamorosa retromarcia, cosa che tuttavia il premier non farà mai costi quel che costi. Il dado è tratto, come dimostra il video contro i sindacati.
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