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Questo articolo è stato pubblicato il 24 ottobre 2014 alle ore 07:46.
L'ultima modifica è del 25 ottobre 2014 alle ore 10:25.

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L’arrivo in Sierra Leone
In Sierra Leone è da marzo 2014, dove lavora con Medici con l’Africa Cuamm come capo progetto per sviluppare un programma nazionale sulla salute delle mamme e dei bambini. Avrebbe dovuto organizzare la maternità e la pediatria nelle 75 unità periferiche di medicina situate nel distretto di Pujehun, coordinando il lavoro di 220 operatori tra medici infermieri e addetti alla logistica, africani ed europei. «Con me ci sono altri italiani:  un chirurgo, Enzo Pisani, che viene dalla Puglia, e Matteo Bottecchia che è a Freetown e ci aiuta per l'acquisto di materiale e la logistica».

La minaccia di Ebola
Ebola ha cambiato le carte. Il progetto si è spostato tutto sulla lotta all’epidemia.
A Pujehun c’è un mercato di strada, una strada di terra e un’altra parzialmente asfaltata. Fuori, la foresta tropicale, strade difficili da percorrere in questa stagione delle piogge. Poco cibo, sempre lo stesso: riso, pesce secco di fiume, foglie di manioca e patate dolci. «Gli ospedali - racconta Clara - sono vuoti perché la gente ha paura di finire nei centri di isolamento e di scoprire che ha l’Ebola. Questo non fa altro che peggiorare le cose perché i bambini non vengono piu vaccinati, le donne partoriscono a casa e spesso muoiono. Ritornano alle cure tradizionali. Chi ha il virus Ebola invece di farsi aiutare lo diffonde».

La lotta contro l’epidemia e contro l’ignoranza
Una lotta con l’epidemia e contro l’ignoranza. «A marzo, quando sono arrivata, già si parlava di Ebola. C’erano stati i primi casi. Poi la gente si è rilassata perché è arrivata la festa di Pasqua e li è stato un grande errore. Da metà maggio l’epidemia è partita alla grande. Abbiamo creato dal nulla e organizzato, in pochissimo tempo, due centri sanitari a Pujehun e a Zimmi per isolare i casi sospetti, fare i test e dare le prime cure. A luglio abbiamo tirato su il primo centro. I detenuti della prigione locale hanno disboscato il terreno e con Mohamed, il nostro addetto alla logistica , e Mustapha, il muratore, hanno gettato una base in cemento e infine, con la stagione delle piogge che cominciava, sotto temporali incessanti, siamo riusciti a costruire sette stanze, tra degenza e spazi per il personale medico. In breve è stato organizzato lo staff con le diverse funzioni. Personale medico e infermieristico, più le squadre che si occupano del trasferimento dei malati e quelle che si occupano della sepoltura dei morti cercando di attuare per tutti gli operatori dei rigiri protocolli di sicurezza. Attraverso questi centri siamo riusciti a contenere tanto l’epidemia».

Quante persone sono passate finora? «I malati accertati da noi sono stati una trentina. Ci sono stati morti. Qualcuno è guarito. E poi abbiamo lavorato molto per controllare la gente comune, creando dei veri e propri check-point dove le persone vengono fermate e viene rilevata la temperatura corporea. Se c'è il sospetto di essere davanti a un caso di Ebola la persona viene messa subito in isolamento».

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