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Questo articolo è stato pubblicato il 24 ottobre 2014 alle ore 07:46.
L'ultima modifica è del 25 ottobre 2014 alle ore 10:25.

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Non ho figli perché abbiamo girato troppo in questi anni, però ne ho tanti di figli acquisiti nei posti dove sono stata in Africa e ce ne sono tanti che han bisogno di essere aiutati»…

Paura? «Sempre»
La paura durante questi lunghi frenetici giorni non arriva mai? «La paura ce l'abbiamo sempre. È una difesa aver paura in questi casi. Sarebbe peggio non averla e tra di noi ci aiutiamo. Oggi, per esempio, è arrivata una donna che doveva partorire ed era in quarantena perché aveva perso dei familiari a causa di Ebola. Ho chiamato subito il chirurgo per valutare cosa fare. Abbiamo deciso insieme che comunque erano passati diversi giorni dal contatto con il malato, considerando che non si era ammalato nessuno è stata accettata e quindi partorirà in ospedale. Il rischio c’è sempre».

Momenti di scoraggiamento ci sono? «Ci aiutiamo a vicenda e continuiamo ad andare avanti, anche se è dura. Sogno di riposarmi, prima o poi succederà. In queste settimane, secondo me, la situazione nella nostra area sta migliorando. Speriamo che riescano a contenere il virus a Freetown».

Di che cosa avete bisogno nel costro lavoro quotidiano per contenere l’emergenza? «Mancano operatori. E poi abbiamo bisogno di tanto materiale monouso per non mettere a rischio gli operatori e gli addetti alla pulizia: asciugamani monouso, camici monouso, guanti monouso, sacchetti per la spazzatura e tutti i presidi sanitari monouso che poi si bruciano. E poi scarpe chiuse per tutto il personale medico e infermieristico perché siano protetti. Molti girano con le ciabatte: abbiamo comprato stivali a tutti, ma tenere tutto il giorno gli stivali è duro. Ci vorrebbero scarpe chiuse ma traspiranti. Adesso siamo sul finire della stagione delle piogge ed è tanto umido, con una temperatura di 26-33 gradi e tassi di umidità del 90-95 per cento. In queste condizioni stare dentro le tute protettive è un martirio. Perdi liquidi a tutto spiano».

La cura dei malati
Come è organizzata la cura delle persone malate di Ebola? «Noi siamo un centro di isolamento. I pazienti positivi al virus li trasferiamo nei Centri di trattamento e abbiamo delle ambulanze solo per questi pazienti. Noi prendiamo solo i casi sospetti e probabili. Quando il test è positivo, circa 72 ore dopo il ricovero li trasferiamo in un centro di trattamento se non muoiono prima, anche bambini».

E quella dei morti
«Poi abbiamo organizzato anche il team per le tumulazioni, che si occupa della sepoltura dei morti di Ebola, che sono molti contagiosi soprattutto dopo il decesso, perché perdono sangue e liquidi biologici. I cadaveri vengono messi in un sacchetto di plastica con cerniera, fumigati con il cloro e caricati su una macchina apposta e poi sepolti in una zona che abbiamo creato in mezzo alla foresta, utilizzata solo per questo tipo di tumulazioni». Difficile da accettare per la gente del posto abituata ai funerali tradizionali non fare la cerimonia per salutare il defunto. «E’ stato necessario a volte richiedere l’intervento della polizia per svolgere queste operazioni in sicurezza e limitare i rischi».

Un lavoro complicato, tremendamente complicato, con diverse squadre da organizzare in tutte le fasi possibili della malattia, dai test alla morte. Ogni giorno si ricomincia e si è sempre in emergenza. Con il rischio e il pericolo di ammalarsi. Lavoro che è più simile a una missione. «Speriamo che finisca presto l’epidemia. Speriamo di riprendere la vita normale. Piano piano, un passo alla volta succederà, ce la faremo», conclude Clara al telefono. In questo periodo - dice mentre ci salutiamo - sogno sempre Ebola. Sogno i due infermieri morti. Sogno come proteggere la gente e i miei collaboratori. Sogno occhiali, camici, guanti e stivali che non bastano mai. Prima o poi questo sogno finirà».

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