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Questo articolo è stato pubblicato il 05 novembre 2014 alle ore 08:23.
L'ultima modifica è del 05 novembre 2014 alle ore 16:47.

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NEW YORK – I repubblicani hanno inflitto una dura umiliazione ai democratici e alla presidenza Obama: hanno riconquistato dopo otto anni la maggioranza al Senato, passando da 45 a 52 seggi, hanno rafforzato le posizioni alla Camera toccando quota 240 seggi contro i 226 della precedente legislatura e hanno offerto buone performance nella battaglia per le 36 poltrone da governatore.

E' vero, due degli stati più importanti New York e la California, sono rimasti rispettivamente ai democratici Andrew Cuomo e Jerry Brown. Ma si tratta di una magra soddisfazione per questa tornata elettorale che ha di fatto chiuso ufficialmente l'epoca Obama, ha rivoluzionato gli equilibri politici della Capitale ed ha aperto la strada alla corsa più dura, la Casa Bianca del 2016.

La vittoria a queste elezioni del Midterm è giunta quando i conteggi in molte circoscrizioni erano ancora aperti ed è giunta prima del previsto. Quando si è saputo già verso le 11 che i repubblicani avevano conquistato cinque seggi dei sei di cui avevano bisgno per la maggioranza, si è capito che la partita era chiusa. Poi è arrivato puntuale il sesto seggio: Tom Tillis si è aggiudicava la vittoria in North Carolina e chiudeva la partita. Abbiamo avuto anche molti altri risultati e curiosità locali: Washington D.C., la Capitale e l'Oregon hanno votato per legalizzare la Marijuana. In Texas spunta un altro George Bush, è il figlio di Jeb, possibile candidato alla Casa Bianca. Ma la sua seconda iniziale è P.: ha vinto la posizione di commissario per le terre demanialie h 38 anni. I conteggi ci dicono che finora ci saranno almeno 100 donne in Congresso. Un record? Sembra di si, nel 2011 e nel 2009 le donne in Parlamento erano 90, nel 2003 74, nel 1991 soltanto 32, Gli elettori della Carolina del Sud hanno mandato al Senato il primo afroamericano eletto nel Sud degli Stati Uniti dai tempi della guerra di Secessione. Tim Scott, repubblicano di 49 anni, era già senatore dal gennaio 2013, per aver sostituito il suo predecessore che si era dimesso, ma ora ha la forza del voto.

Ma su tutto, sulle mille curiosità di elezioni in 50 stati americani, prevale il passaggio dei poteri in Parlamento. Barack Obama, il profeta del “Yes We Can” stato dunque sconfitto. Sconfitto malamente. Eppure l'economia va bene, il costo del carburante ai distributori è crollato. L'occupazione è risalita. Ma il segnale del malessere degli americani lo abbiamo proprio da questo risultato elettorale che ci conferma quanto la classe media sia in crisi, quanto sia faticoso per tutti arrivare alla fine del mese, quanto le tasse restino elevate, la qualità dei posti di lavoro sia insoddisfacente e la diseguaglianza aumenti. Non è chiaro come i repubblicani possano raddrizzare la situazione, ma intanto promettono e vincono. Per questo l'era di Obama ufficiosamente è finita ieri, 4 novembre.

Con questo risultato elettorale Barack Obama sarà ancora più debole. si troverà a governare per gli ultimi due anni del suo mandato con un Parlamento schierato contro di lui. Cercherà rifugio in politica estera. Giaà nel fine settimana partiraà per la Cina e l'Australia. Ma se vorrà chiudere la presidenza con almeno qualche riforma importante dovrà lavorare coi repubblicani e dovrà cedere su molte delle sue prerogative. Impossibile? Niente affatto: questi ultimi due anni saranno turbolenti perché con oggi si chiude di fatto l'epoca Obama e si apre la battaglia per la Casa Bianca del 2016. Sarà soprattutto nel 2015 che si dovranno trovare accordi su tematiche dove entrambi i partiti sanno di poter lavorare, per spazzare il campo elettorale da questioni che potranno già essere archiviate e per tenere alto il muro contro muro su temi cari a ciascuno dei partiti, utili a mobilitare le basi militanti sia repubblicane che democratiche. Un tema su cui si cercherà di lavorare ma quasi certamente non si troverà soluzione è quello della riforma fiscale. Obama e John Bohener, il capo della maggioranza alla Camera, ci avevano già provato prima delle presidenziali del 2012, ma il risultato è stato distrasoso perchè ciascuno accusava l'altro di voler strumentalizzare politicamente il negoziato. Obama avrà anche a disposizione gli “ordini esecutivi”, con cui cercherà di imporre riforme in materia di ambiente, di diritti dei gay e di alcune tematiche economiche come lo stipendio minimo che vorrebbe aumentare da 7 a dieci dollari l'ora. Ma alla fine il Presidente dovrà puntare su tre cose più concrete di politica interna se vorrà lasciare il segno della sua presidenza nella storia americana: immigrazione, accordo per un mercato transatlantico libero e riforma sanitaria.

Cominciamo dalla sfida più difficile. I repubblicani vorrebbero abolire la riforma sanitaria di Obama e sostituirla con un'altra riforma di fattura alquanto diversa. Ma non possono farlo perché, al di dei vantaggi nei primi exit polls, e anche se vincessero la maggioranza, non riusicranno mai a raggiungere un vantaggio di 60 voti al Senato, il numero minimo necessario per evitare l'ostruzionismo che organizzerebbero i democratici. Ma la riforma così com'è non funziona. Lo stesso Barack Obama ha dovuto ammettere che dei cambiamenti saranno necessari e dunque tanto vale per entrambi cambiare le regole più controverse e sgombrare il campo della battaglia presidenziale da un tema difficile. Questo potrà succedere se i repubblicani si convinceranno che le chance di vittoria per Hillary Clinton sono molto elevate. Altrimenti potranno chiudere ogni spiraglio e usare la riforma di Obama come cavallo di battaglia antidemocratico, come esempio di una burocrazia rampante che ingigantisce lo stato e riduce i diritti per i cittadini.

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